Silvester Stallone è tornato con l’ultimo capitolo della saga di Rocky iniziata più di trent’anni fa e a più di quattordici anni dall’ultima fatica cinematografica pugilistica, con l’epilogo che ha un sapore amaro, invecchiato, gonfio e bolso come il protagonista con addosso i segni evidenti dello scorre del tempo, e vive di ricordi, in una solitudine circondata da cimeli e racconti fatti ai clienti del ristorante “Da Adrian,s” di cui è titolare. Nemmeno il rapporto con il figlio è idilliaco, i due hanno continui scontri, e il peso per la perdita dell’amata moglie lo fa vivere in un limbo sospeso, dove i flash back degli incontri passati, dei momenti di gioia, dell’amore vissuto con l’amata, sono in conflitto con l’amara realtà degli anni che sono passati.
Balboa è stanco, è tornato ad indossare il solito cappello da bullo di periferia, giacca in pelle nera, e si muove nei sobborghi di Filadelfia come un fantasma braccato da altri fantasmi, come un cane randagio che ha smarrito la collocazione temporale.
Stallone in questa sua ultima fatica è tornato agli esordi, è tornato a visitare quei luoghi che l’hanno reso celebre, e in Balboa rende omaggio alla sua ascesa in quello che fino a pochi anni fa, anche per lui era l’Olimpo degli attori Hollywoodiani, dove l’attore e il protagonista hanno i segni nel volto di mille battaglie, e fatiche reali o immaginarie.
Rocky Balboa è un film nostalgico, è l’epilogo, l’elogio, l’epitaffio della decadenza, il viale del tramonto che si tinge di rosa tenue, colorandosi di un sentimento nuovo per il vecchio campione tornato sul ring a quasi sessant’anni, per rivivere i fasti di una giovinezza perduta, dove la goffaggine si vede fino in fondo, non è stata risparmiata la maschera di sofferenza, il fiatone corto, il sangue che scorre copioso dal setto nasale colpito per l’ennesima volta, ma il vecchio leone vuole ruggire per l’ultima volta, per vincere il mostro della solitudine che lo consuma come un cancro, vuole avere un’ultima chance per riprendersi una vittoria morale contro il dolore, contro la perdita degli affetti, contro la dipartita della moglie che si presenta in ogni attimo nei suoi pensieri.
Il film nella sua semplicità è struggente, ma è una battaglia perduta contro il tempo e contro se stesso, è una battaglia dolorosa che riparte dal sudore degli allenamenti, dalle flessioni fatte con fatica e difficoltà, ma è anche un inno, una marcia trionfale verso una vittoria, che ha il sapore di una nuova scoperta, che profuma non solo di sudore stantio e ammuffito in una vecchia palestra, ma profuma dell’aroma di una vita che non vuole morire, che non vuole solamente sopravvivere, ma continuare a vivere.
Un film ha molti pregi, ma anche molti difetti, ma sopra tutti troneggia un Silvester Stallone che ha fortemente voluto questo suo ultimo ritorno di uno dei suoi altar eghi preferiti, ed ha avuto il coraggio di farlo tornare con la mollezza dei suoi sessantenni, i muscoli flaccidi, e i movimenti lenti, tremendamente lenti, i pugni che sebbene facciano ancora male, sono goffi, tentennanti, a tratti leggermente paurosi, ma è tornato per dare l’addio ad un personaggio cinematografico che ha segnato la storia e i costumi degli ultimi trent’anni, e l’ha fatto con una prova di coraggio, tornando a rivisitare il passato, entrando in quell’angolo della memoria non solo di Rocky Balboa, ma di tutti i suoi fans, dentro la storia stessa, e per farlo è ripartito dagli esordi, dalla decadenza, dalla polvere e dalla muffa, la stessa polvere e la stessa muffa che si annida dentro la mente di ogni uomo quando, forse si sopravvive al proprio tempo, quando si sopravvive e si vive seduti davanti alla tomba di una persona amata, quando chi ti amava non c’è più, e la solitudine è l’unica compagna di vita, ma Rocky si alza da quella sedia, si allontana da quel cimitero come un eroe solitario d’altri tempi, pronto per accettare finalmente il viale del tramonto.
Marco Bazzato
17.01.2007
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