venerdì 16 febbraio 2007

Ariel Toaff: Pasqua di Sangue

Non ho avuto l’onore di leggere il saggio storico Pasqua di Sangue di Ariel Toaff. Non ho avuto l’onore perché in ritardo sui tempi d’acquisto. Ho provato a richiederlo direttamente alla casa editrice "Le Edizioni del Mulino", che gentilmente è stata costretta a declinare la mia richiesta, in quanto l’autore da poche ore aveva deciso di sospendere la stampa del medesimo.
Leggendo nella rete, ho trovato una quantità inverosimile di commenti al vetriolo, alcuni casi grondati di rabbia apocalittica contro l’autore che con onestà intellettuale ha voluto entrare in un tema controverso, difficile da accettare, forse non condivisibile, ma che non per questo doveva cadere nella scure della censura politica che odora di zolfo, lo stesso zolfo, e che sembra ricalcarne pari passo, “L’indice dei libri proibiti” di Sant’Uffizio Memoria.
Voglio esprimere all’autore del saggio, lamia solidarietà per il coraggio d’aver espresso tesi controverse, che non intaccano l’ebraismo come religione praticata da milioni di fedeli nel mondo, perché la Santità di una Fede, qualunque essa sia proviene direttamente dal Dio in cui ci si prostra, ma la devianza nasce dall’uso strumentale e politico che di essa si vuole fare, e non si può non lodare un autore che ha avuto coraggio e forza intellettuale di scavare all’interno delle deviazioni della fanatica follia religiosa, non importa da che parte provenga, sia essa Cattolica, Araba o Ebraica, il fanatismo presente o passato, è sempre un dramma che ricade sull’umanità intera.
Vorrei dire ai tanti commentatori che un testo storico va letto e interpretato esclusivamente in chiave storica, gettarlo nell’arena politica della strumentalizzazione ideologica, contribuisce ad allontanate la storia stessa, portandola e manipolandola verso un ipotetico presente inesistente.
Non si può parlare d’antisemitismo di un libro scritto da un ebreo, si può parlare del coraggio dell’ebreo nel rivelare e approfondire la storia, per quanto sgradevole possa apparire, andando contro il dogma imposto, lodare la forza d’esporre le proprie tesi, anche se vanno, credo con estremo dolore, non contro la Fede del Dio in cui si crede, ma contro il male che in passato l’uomo ha fatto proprio contro la Fede stessa.
L’augurio è che Ariel Toaff ritorni sulla sua decisone, e che gli avvoltoi politici, e quanti si rivoltano contro un loro fratello di religione ebraica, paventando il rischio di nuovi olocausti, sappiano rileggere, ma soprattutto leggano veramente le tesi espresse nel libro con occhio meno pregiudiziale, e non ancorato alla paura e al timore di una verità o un opinione storica diversa da quella comunemente conosciuta e riconosciuta.
Un libro, in questo caso un saggio storico, ha comunque un valore aggiunto, un valore che non dovrebbe essere cancellato dalla memoria, non deve essere gettato al rogo, censurato e usato come clava sia verso l’autore, e verso i lettori, con la scusante che esso possa risvegliare i fantasmi dell’antisemitismo. Le motivazioni che portano all’antisemitismo, sono ben altre, e per quanto esse siano abiette, nonabbisognano d’andare a scomodare una storia, una leggenda, una verità tenuta nascosta che appartiene a più di seicento anni fa.
Per il bene della libertà d’espressione, mi auguro che l’autore torni sulla sua decisione, perché il ritiro dal mercato di “Pasqua di sangue” indipendentemente dal caso di Ariel Toaff è un attacco alla libertà d’espressione, quella libertà sacra e inviolabile di cui gli ebrei per primi ne sono stati vittime nei secoli passati, e che ora sono nuovamente vittime, questa volta però all’interno del proprio gruppo religioso d’appartenenza. Questa è una sconfitta autoinflietta e autolesionista per loro, per la libertà di ricerca, di divulgazione storica, e per la cultura stessa, che deve basarsi necessariamente sul dialogo, lo scontro accademico anche feroce, ma non sulla censura o l’autocensura imposta da pressioni politiche, che alla fine si ritorcono contro coloro che la perseguono e la invocano come necessità strategica, per veicolare il pensiero verso un unico pensiero dominante.

Marco Bazzato
16.02.2007
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mercoledì 14 febbraio 2007

Il diritto di dissentire

Pochi giorni fa scrissi un articolo, dove con chiarezza ribadivo il dissenso ai Di.co, alla legalizzazione delle coppie di fatto, spiegandone in termini scherzosi, ma da alcuni definiti apocalittici, altri dandomi quasi del razzista, perché esponevo la mia netta contrarietà a riguardo le unioni civili.
Come alunni lettori hanno scritto, l’istituzione matrimoniale, civile e religiosa, soffre di una profonda crisi d’identità, che ha portato all’aumento vertiginoso delle convivenze, basate sulla mutua assistenza, ma in primo luogo sulla volontà di non aver nessun tipo di vincolo legale, libertà assoluta d’unirsi, sfaldarsi, rimettersi assieme, a uso del momento e delle convenienze dell’attimo. È proprio in virtù di questa libertà che il Di.Co è un paradosso legale, perché non ha senso dare protezione legale, diritti a coppie, che per scelta hanno deciso che a loro non confà nessun vincolo.
Le ipocrisie servono a poco, perché quanti si dichiarano favorevoli a queste forme, si lasciano manipolare dal politicante di turno, da quanti in tv, nei comizi, nei salotti spargono lodi a queste forme d’unione, a meno che in Italia, come sempre non si nasconda il bisogno di dare diritti a destra e a manca, mascherando come necessità delle coppie conviventi, il diritto di’unione “matrimoniale”, a persone non di sesso opposto. Ecco che l’arcano, l’inghippo, l’assurdo giuridico, sfoderato contro le masse che si accontentano del primo urlatore che ha un microfono sotto il naso che grida qualche banalità ad effetto, cadono all’amo della giaculatoria politica, e dell’oratoria da centro sociale, che per loro stessa natura sono anarchici e refrattari ad ogni regola.
Evidenziai che i Di.Co, sono stati sbandierati come una conquista di civiltà, come se il giorno precedente, l’intero Paese non fosse stato null’altro che colmo da una mansnada di incivili, barbari, esseri abietti, senza pensieri propri, senza coscienza, deturpatori delle libertà altrui, una nazione incivile che rinchiudeva nei getti, che isolava, e nascondeva sotto lo zerbino realtà scomode o pruriginose.
Il punto è che siamo assuefatti a tutto, e tutto ingenera indifferenza, e in virtù di quest’indifferenza, nel nome dei diritti, di tutti, ci si schiera anche a favore d’ogni bestialità giuridica, l’importane è saperla vendere come spot promozionale, con parole ad effetto che colpiscono quanti, presi da debolezze si lasciano corrompere in ogni dove, dimostrando ancora una volta che una delle peggiori realtà dell’italia massificata, sempre pronta a pensare con la testa altrui, mai con la propria, è disposta a cedere il passo alle proprie idee e convinzioni personali, rifugiandosi nell’anonimato del grido urlato della piazza, perché il pensiero proprio ha abdicato a favore dell’altro, ma l’altro, pensa solo al proprio interesse, usa i manipolabili per raggiungere il suo scopo.
Scrissi anche che questo era il primo passo verso la legalizzazione della poligamia. Impensabile in Italia! Diranno alcuni, certo com’era impensabile fino a pochi anni fa il vedere seppur di serie b o zeta, legalizzate le unioni tra individui dello stesso sesso, tanto è vero che solamente venti o trent’anni fa era impensabile una tv piena di eterofobici, che senza pudore alcuno attaccano in modo velato o palese l’istituzione matrimoniale solo perché per libera scelta non la possono ambire.
Appare ancora più paradossale, che certe persone che mi scrivono, mi accusino d’essere filo vaticano, un estremista religioso della peggior specie inginocchiato alle gerarchie di uno Stato Straniero, che prendo posizione in loro favore. Nulla di più falso, e privo di fondamento, in quanto non c’è bisogno di nessun Vaticano, di nessun prete più o meno schierato in posizioni teologiche estreme, per ribadire quella che è una realtà biologica ovvia, ma naturalmente a determinati intellettuali dell’ultima ora, l’ovvietà è una banalità, non come essenza della realtà, che seppur complessa ha come base la semplicità.
Perché una persona che si riconosce in una storia biologica, naturale, animale eumana, descritta dalla scienza in ogni libro di testo, da quello più elementare a quello più complesso, dove i fondamenti stessi dell’evoluzione sono basate su realtà non scritte da qualche dio teologico, ma dalla natura stessa allo scopo di evolversi e preservarsi, deve andare contro la natura stessa, per uniformarsi ad un presunto pensiero dominante, infarcito di spiegazioni scientifiche faziose, scritte all’uopo per incantare.
Le persone dello stesso sesso vogliono sposarsi, vogliono convivere, vogliono costruirsi una psudo famiglia, in nome dei valori in cui però solo loro si riconoscono, nessuno glielo proibisce, facciano pure, nessuno vuole negargli questo “diritto”, ma essi vorrebbero che quanti la pensano in modo diverso da loro, si uniformassero al loro pensiero, perché loro non si uniformano a quelli di quanti pensano e vivono in modo diverso da loro?
Desiderano mantenere la loro individualità, giusto, ma anche gli altri desiderano mantenere la propria, senza snaturarsi dalle loro convinzioni personali e sociali.
Nella società esistono dei muri non abbattibili, fratture che nessuna legge di Stato potrà cancellare, leggi che invadono l’interno dell’individuo stesso, nella parte più profonda e nascosta dell’essere, e è in virtù di queste convinzioni personali che l’individuo, ogni individuo ha il dovere di non uniformarsi passivamente al pensiero pubblico dominante, ma mantenere inalterata la sua essenza e la sua coscienza, esattamente come i pacifisti, i medici obiettori che si rifiutano di praticare l’aborto, ma si sa il pensiero mezzo orbo e mezzo sordo è una costante italica che negli ultimi anni emerge ogni giorno di più in modo sempre più lampante e destrutturate per il Paese stesso.

Marco Bazzato
14.02.2007
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Di.Co: Idiozia

Il recente decreto legge che ha istituito i Di.Co, Dichiarazione di Convivenza, oltre ad aver creato un mostro giuridico, ha portato l’Italia ad essere finalmente un paese civile. Civile perché l’abominio giuridico, ha chiaramente messo in luce i millenni di storia d’inciviltà che il Paese ha alle spalle, sancendo de facto un de profundis della famiglia italiana come istituzione fondata e fondate sul matrimonio civile o religioso.
Il Paese aveva bisogno di uno scempio tale? Sicuramente no, e non perché prima mancasse di civiltà, ma perché la civiltà stessa ha resistito benissimo per millenni senza bisogno di sancire alcun pezzo di carta, alcun documento scritto, ma sulla semplice bontà d’intenti di una coppia, che in libertà sceglie di vivere senza l’ombrello protettivo delle leggi dello Stato, ma in totale e libera anarchia, fondata però essenzialmente su quelli che sono i propri valori di coppia, dove liberamente hanno scelto di lasciar fuori lo Stato.
Naturalmente si è accesa la battaglia politica, ideologica e strumentale, specialmente da parte dall’ala radicale della politica italiana, che forse pretendeva libero accesso alle Chiese per celebrare matrimoni tra eterosessuali e non, dissenzienti da quelle che sono le leggi, condivisibili, oppure no della religione cattolica.
Alcuni parlano d’aperta ingerenza da parte delle gerarchie vaticane all’interno degli affari italiani, minando di base il principio del concordato tra Stato e Chiesa Cattolica, dimenticando che esiste anche una categoria che non si identifica con lo Stato Vaticano, ma fa appello alla propria coscienza individuale ed individualistica rifiutando a priori qualsiasi forma di matrimonio tra coppie che non siano di sesso opposto l’una all’altra, ed è altresì volgare pensare di dividere il Paese in opposte frazioni: i laici e cattolici,mentre il vero contenzioso è tra persone, che anche senza indottrinamento religioso,riconoscono e vedono nei Di.co, un mezzo poco ortodosso per accontentare una frangia minoritaria della popolazione italiana, che per semplice calcolo economico vogliono la parificazione legale a diritti naturali, che per loro libera scelta, come nel caso dei conviventi, hanno scelto di rifiutare.
I Di.co aprono una strada ad altri gruppi estremistici, che stanno già cercando di forzare le leggi dello Stato italiano, chiedendo il diritto alla poligamia, cosa che non avverrà a breve, ma avverrà.
I Di.co, sono l’ennesimo pastrocchio all’italiana, una minestra riscaldata e insipida che sta trovando validi ostacoli da parte dell’opposizione, che seppur facendo pura demagogia politica, uniformandosi ai dettami e agli anatemi d’Oltretevere, ha il pregio d’essere, nonostante la strumentalizzazione, a favore della famiglia tradizionale, a difesa di quei valori fondanti e, indipendentemente da ogni legge umana che si voglia adottare, non appartengono alla legge naturale ma appartiene di diritto a quanti, scientificamente e razionalmente sanno, senza falsità e ipocrisie che la specie si rinnova e si evolve solo attraverso l’unione dei due sessi diversi.
Sarebbe interessante che la Chiesa facesse un altro passo, anche se preferirà sparare nel mucchio dei cattolici, scomunicando pubblicamente gli estensori del decreto legge, che se sono laici se ne fregheranno, mentre se si dicono Cristiani dovranno scegliere tra Fedeltà alla propria coscienza religiosa, o fedeltà ai valori incarnati dallo Stato, e non per questo mettendosi in conflitto con esso, ma ribadendo il diritto supremo di coscienza, al pari di quanti, pacifisti, medici che rifiutano di praticare gli aborti, altro.
Non sempre “diritto” significa dare diritti a tutti, anzi il vero “diritto” è quello che incarna la storia, la tradizione, i fondamenti di base di una civiltà, e se si vuole che questa civiltà prosegua, anche nel nome di una laicità equidistante, deve saper dire di no, senza piegarsi a compromessi faziosi di quanti, vogliono un cappello protettivo delle loro faccende private e personali che riguardano certe “presunte” forme affettive.

Marco Bazzato
13.02.2007
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mercoledì 7 febbraio 2007

Notturno a tre di Alessandro Maria Jetti


Locandina di presentazione del nuva raccolta di poesia di Alessandro Maria Jetti

lunedì 5 febbraio 2007

Quando la verità è dolorosa e fa male

«il calcio non può chiudere, i morti sono parte del sistema. La Fiat per rilanciarsi non si è certo fermata. Noi siamo addolorati, ma lo spettacolo deve continuare».
Antonio Matarrese

Quella sopra riportata è la “sconcertante” dichiarazione di Antonio Matarrese, presidente della Lega Nazionale Professionisti, che nella sua brutale verità ha lasciato tutti sconcertati. Di cosa dobbiamo stupirci del resto? Della verità. Certo la “sadica” frase che poteva solo essere pensata, ma non detta, potendo apparire irrispettosa nei confronti della vittima di cui oggi si sono svolti i solenni funerali di Stato?
Lo scandalo è che Matarrese abbia parlato fuori dei denti, dichiarando una verità incontrovertibile, e sotto gli occhi di tutti. Tifosi, investitori, azionisti, calciatori e quanti sono coinvolti in modo diretto o indiretto col mondo del pallone, e mordono il freno nelle dichiarazioni pubbliche, ma intanto avvocati e commercialisti pubblici e privati fanno e rifanno i conti di quanto queste due giornate di sospensione costeranno all’erario, alle società sportive costrette ad adeguarsi decreto Pisanu, ma applicato fino in fondo, ai commercianti che non vendono magliette, alla tv che hanno sborsato milioni di euro per i diritti di trasmissione, agli sponsor che mancano di platea televisiva e rischiano di veder contrarsi i loro introiti.
Matarrese ha un'unica colpa: non ha fatto lo struzzo, non ha nascosto la testa sotto la sabbia dell’ipocrisia piagnona e buonista a tutti i costi, di non aver parlato come un santo pronto a porgere l’altra guancia. Ma ai benpensanti dell’ipocrisia non sta bene, questo parlar chiaro, senza sotterfugi e doppi sensi non è politicamente corretto, non è cinicamente comprensibile, non è rispettoso. Ma non è rispettoso nei confronti di chi? Di chi sapeva e non denunciava? Di chi denunciava, ma non poi non cambiava nulla? Non è rispettoso nei confronti delle forze dell’ordine che conoscendo i rischi, sono costretti a tenera a bada una masnada di “terroristi” calcistici, una minoranza, ma una minoranza che ha fatto scappare il morto, dove gli uomini dello stato sono mandati allo sbaraglio, sbeffeggiati, insultati, presi a sassate, in nome di cosa? Dello Sport? Del calcio? Del pallone? No, in nome di quell’interesse semplice che è il denaro, il profitto, che come per le morti bianche sul lavoro, lo sport non si ferma davanti al morto ammazzato durante una partita sportiva, i cantieri della nazione non si fermano a tempo indeterminato, le fabbriche non chiudono per quindici giorni, ma continuano a lavorare, a produrre, a creare profitto e dividendi per gli azionisti, li non c’è ipocrisia, belle parole inaplicate nei fatti, ma li nessuno si scandalizza….e riprende, spesso paggio di prima…
Del resto anche le trasmissioni sportive di questi giorni, dove le opinioni dei conduttori e degli ospiti, erano un invito velato a trovare soluzioni rapide, per non vedere il tracollo economico del settore, media compresi.
Il cinismo di Matarrese, anziché attaccato andrebbe difeso, proprio in memoria di quel morto, che è stato ucciso, perché lo spettacolo comunque deve continuare, e le discussioni politiche e dei massimi livelli della federazione calcistica sono la semplice conferma.

Marco Bazzato
05.02.2007
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Calcio sospeso a tempo indeterminato?

Dopo i tragici fatti di Catania di venerdì scorso, che avevano portato alla clamorosa decisione emotiva di sospendere il calcio a tempo indeterminato, ma non sono passati nemmeno tre giorni, e i funerali del poliziotto non si sono ancora svolti, che già suonano le fanfare dell’esercito in ritirata, dove le belle parole di solidarietà, hanno lasciato spazio a calcoli leggermente più veniali, meno ancorati all’emozione e al dolore, rimuovendo alla velocità della luce i bei propositi di meditazione e astinenza dal calcio anzi, l’esercito dei rianimatori sportivi è piazzato al capezzale del moribondo, pronti a praticare ogni tipo di terapia intensiva, pur di farlo resuscitare dalla tomba colma di marciume e larve dov’era stato sepolto poche sere fa.
Bisogna guardare avanti, andando oltre alla tragedia, trovando le cause del malessere sociale, cercando d’estirpare la cancrena che deturpa in ogni ordine di classe sociale il mondo sportivo. Queste sono alcune delle affermazioni ad effetto più gettonante nelle ultime ore.
Il moribondo è in terapia intensiva, ma i rianimatori anche questa volta useranno le classiche terapie omeopatiche, anziché una robusta dose d’antibiotici, scariche elettriche, manganelli ed idranti per far tornare dal mondo dei morti l’amato sport, discutendo sulle possibili cure, sui rimedi stregoneschi, nascondendo la testa sotto la sabbia, sotto lo sterco putrido del marciume d’interessi che coinvolgono lo squallido mondo dorato in ogni ordine e grado.
Per una domenica intanto il campionato è stato sospeso, e così sarà anche in quella successiva, ma viene da chiedersi è possibile in due settimane risolvere i problemi decennali, le mancanze politiche, delle società calcistiche, dei media, e di quanti da anni si avventano sulla carogna della gallina dalle uova d’oro che dispensa miliardi a brocchi e campioni come caramelle, dove l’aroma avvelenato spesso è divorato avidamente da cocainomani sportivi che come tossici in crisi d’astinenza sfogano le loro pulsioni abiette urlano, inveendo, lanciando lacrimogeni, bombe carta, oggetti in campo e quant’altro, in modo improvviso o premeditato salta nella testa durante il sacro rito calcistico, che come un orgia famelica di corpi avvinghiati si accoppiano virtualmente tramite grida e tamburi tribali, come cannibali usciti dalle foreste pluviali,sono pronti a lanciare le loro frecce avvelenate alla prima svista dell’arbitro, al calcio sugli stinchi del beniamino miliardario che se ne frega, dall’alto del suo mondo dorato del destino dei poveri diavoli ossessionati, che lo innalzano come un dio pagano, pronti a ricacciarlo nell’inferno appena compie un minimo errore o il rendimento calcistico passa dalla sublimità dello stallone di razza al brocco pronto per il mattatio.
È sconvolgente questo silenzio privo di urla e grida, privo delle logorroiche dirette radiofoniche e televisive che infestano le reti di ogni ordine e grado, e quasi un mistero gaudioso questa ritrovata pace, nata però sotto il segno della bestialità omicida, che già in troppi sembrano aver dimenticato.
Lo sport è morto, ma come necrofili si trae piacere anche dal godimento del cadavere in decomposizione, dal godimento dell’osservazione degli stadi finalmente svuotati dal chiasso, dai fumogeni, dai lacrimogeni della polizia, ma il “sacerdote” non vuole dare l’estrema unzione, e i parenti interessati sono alla ricerca dello sciamano, dello stregone, del guaritore mistico, pronto a gridare che il calcio e resuscitato, che il dramma consumato appartiene al passato, e che tali tragedie non si ripeteranno più. Così, via tutti allegramente, pronti a contare il denaro degli introiti dei diritti televisivi, dei biglietti, del merchandising, pronti a gridare al gol inesistente, al rigore mancato, pronti a ripicchiarsi nuovamente come bestie feroci dentro il Col osseo. Peccato che i bei tempi della Roma imperiale siano finiti, che il Gladiatore sia stato solo un magnifico Kolossal hollywoodiano, altrimenti sarebbe stata una gioia la riapertura dell’antico Anfiteatro Flavio, che avrebbe fornito una degna cornice tra leoni, tigri e altri bestie feroci, il veder rinnovarsi l’arte del sangue elevato a sport eccelso, dove i novelli gladiatori: gli ultras avrebbero potuto essere gli interpreti attivi dello spettacolo, e il popolo pacifico, quello che del calcio pulito ne hanno fatto un atto d’amore responsabile, si godrebbe beatamente seduto in poltrona, tramite la Pay Tv il banchetto degli animali che si avventano tra di loro senza pietà, pestandosi a sangue, picchiandosi di santa ragione fino allo sfinimento.
Ma l’antica Roma era la capitale di un impero in decadenza, noi, civili del XXI secolo abbiamo creato nuove forme di divertimento più raffinate, meno truculente, senza spade, ma con spranghe, catene, mazze, sampietrini, e sassi scagliati, perché come dice un detto: Lo spettacolo deve continuare! Quindi, via, sopportiamo la tortura di un'altra settimana d’astinenza senza calcio, poi l’eterna ruota dell’ipocrisia riprenderà a girare nell’unico vero verso che conosce: L’euro.

Marco Bazzato
05.02.2007
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sabato 3 febbraio 2007

Calcio infame

Dalle stalle alle stelle, all’abisso. Questa è in estrema sintesi la situazione del calcio italiano dopo i recenti fatti di Catania, costati la vita ad un poliziotto, ucciso all’interno della sua auto da una bomba carta lanciata da terroristi “sportitivi”.
A caldo, durante la tremenda notte di scontri, il commissario Luca Panicalli ordina la sopsoensione del campionato a tempo indeterminato, nazionale compresa. Sarà veramente così, o si tratta di una trovata e una dichiarazione demagogica presa a sangue caldo e con la piazza Catanese ancora a ferro e a fuoco.
Difficilmente si arriverà a tanto, ci sono troppi gli interessi miliardari che ruotano attorno a quello che ipocritamente fino ad ieri sera continuava ad essere chiamato il Campionato più bello del mondo.
Miliardi e follia, esaltazione privata e pubblica, troppi interessi economici, nazionali e internazionali ruotano attorno a questa squallida realtà sportiva, di cui l’italiano è vittima, e come un tossicomane in crisi d’astinenza da cocaina, impossibilitato a disintossicarsi.
È facile immaginare cosa accadrebbe alle blasonate squadre sportive nazionali, se veramente la decisione di sospensione avesse seguito. Gli avvocati già fiutano l’odore del sangue per i contratti miliardari annullati: stipendi dei calciatori, diritti televisivi nazionali ed esteri, contratti pubblicitari, palinsesti televisivi da riscrivere, registi, cameraman, giornalisti in giro a bighellonare per strada, pronti a scendere in piazza per la perdita dei posti di lavoro, tifosi infuriati che non sanno come scaricare le frustrazioni della vita. Mogli che attendono che giunga il giorno della partita per vedersi con l’amante, il mondo delle scommesse regolari e clandestine infuriato per la perdita di milioni di euro di mancati incassi, società sportive costrette a portare i libri in tribunale per dichiarare fallimento.
Insomma, delizia vera di chi si disinteressa di questo sport, gioia sana di veder finire al macero un periodo di follia generalizzata, d’ossessione compulsava, dove il lume della ragione da tempo ha ceduto il passo alla danza della morte sopra la vita stessa.
In molti ora usciranno allo scoperto, dichiarando che era ora che tutto venisse fermato, chiedendo e mettendo sotto accusa il sistema calcio, il pianeta malato dello sport professionistico, che con i suoi eccessi fa impazzire il popolo, con i suoi calciatori viziati a suon di miliardi, fanno vedere nero a quanti si dissanguano per scaricare le tensioni di un’esistenza vissuta al limite, priva di interessi che non vanno oltre all’osservare catatonici quella povera palla presa a caci da miliardari che non sanno dove andare alla domenica pomeriggio, o al sabato sera.
Doveva avvenire la tragedia, la morte, la guerriglia urbana, peggio delle strade di Bagdad per rendersi conto che lo sport e marcio dalle radici fino all’ultima foglia dell’albero, che la pianta ha all’interno vermi, e che come un cancro famelicamennte la divora.
È tragico pensare che ci debba scappare il morto, non un teppista, non un idiota che va allo stadio, mascherato da sportivo che nasconde l’animo dell’assassino, del vandalo, del terrorista calcistico, ma un poliziotto, un padre di famiglia, mandato a fare il suo lavoro, mandato a tenere a bada degli “sportivi” con la mazza in mano, “sportivi” esperti in bombe carta, “sportivi” che si comportano come palestinesi dell’Intifaida, pronti a scagliare sassi contro chi vuole divertirsi, contro coloro che sono stati inviati a mantenere l’ordine, contro coloro che veramente amano lo sport e desiderano passare due ore fuori dalla routine maledetta e dimenticare, gridando, incitando la propria squadra, insultando goliardicamente l’avversario, per poi tornarsene a casa tranquilli.
Ora si spera che questa minoranza di facinorosi l’abbia vinta, che grazie a loro, lo sport più amato dagli italiani si fermi per sempre, si spera che grazie a queste frange estreme organizzate, il calcio muoia sepolto da una valanga di debiti, di contratti annullati, di società fallite, con gente a spasso e senza lavoro, stadi chiusi per sempre, che restino nei decenni a venire come il Colosseo, a futura memoria dei gladiatori del XXI secolo che hanno ricacciato grazie a barbaro calcio, e al tifo squadrististico-terrorista lo sport, indietro di duemila anni.

Marco Bazzato
03.02.2007
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giovedì 1 febbraio 2007

Veronica Lario – Silvio Berlusconi 1 a 1?


Dopo la lettera di Veronica Lario indirizzata al marito e pubblicata su Repubblica, e la relativa risposta giunta a breve giro di posta nelle medesime pagine, si è accesa la battaglia politica e mediatica, per dare una chiave di lettura non solo familiare dell’evento che ha fatto il giro del mondo, e per capire se dietro a questa richiesta di scuse pubbliche ci sono altri eventi che possono essere il preludio di qualcosa di ben più sostanzioso, come la spartizione dell’impero Finivest e le relative quote spettanti ai figli, sia quelli avuti da Berlusconi dalla prima moglie, e poi da Veronica Lario.
Anche la scelta del giorno di pubblicazione della lettera da adito ad altri tipi d’interpretazione, il primo fra tutti, essendo in discussione la legge sui pacs, questo evento assume la connotazione di sviare il pubblico dalla battaglia parlamentare in atto, e dalle dure prese di posizione che i due opposti schieramenti politici, con colpi di fioretto non esitano a lanciarsi.
Resta da capire se Veronica Lario sia effettivamente adirata con il marito, oppure conoscendolo da più di ventenni, inizi ora a scoprire la sua goliardia, a volte fuori luogo, e che l’evento dei Telegatti è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?
Paradossalmente questa vicenda di lavaggio dei panni privati in pubblico, pubblicata dal quotidiano rivale storico del cavaliere, sta portando consensi al leader di Forza Italia, rischiando di trasformare lo scafato comunicatore in una vittima delle beghe familiari, aumentando il favore pubblico, già dimostratasi con una forte ondata di solidarietà nei suoi confronti, che lo vede ora come un uomo sotto la ciabatta della moglie, è stato più facile per Berlusconi fare le scuse pubbliche, piuttosto che avere il chiarimento privato a quattrocchi, “"Ero recalcitrante in privato perché sono giocoso ma anche orgoglioso…”.
Le due lettere, lo Stranamore al contrario nascondono troppe cose, ne dichiarano molte con ampollosità, con dichiarazioni mielose intinte di curaro, dove i panni sporchi sono stati gettati in pasto ai media come un guanto di sfida, come l’invito a singolar tenzone, dove Cavaliere e Donna Veronica sono forse pronti ad affrontarsi in altri ring, lontano dalle luci della ribalta, ma non per questo meno dolorosi e dissanguanti psicologicamente ed economicamente.
In molti si stanno chiedendo se le due lettere sanciscono la fine dell’idillio, di un matrimonio che da tempo vede la coppia distante, Veronica a Villa di Macherio ad Arcore, e Berlusconi a Roma a Palazzo Grazioli?
D’altronde se non fosse questa “Augusta” coppia, ma dei signori Rossi qualsiasi, le voci di paese, delle comari, delle massaie sedute sotto il casco per capelli dalla parrucchiera, già da tempo spettegolerebbero e non sottovoce, che i signori Rossi, ricchi imprenditori locali vivono separati, in case diverse…e si vedono solo “impegni permettendo”.
Forse il pentolone sta per esplodere, con un’esplosione di lapilli e terremoti di Borsa, forse è fumo gettato in pasto all’opinione pubblica da una coppia mediatica, dove il capo famiglia , che ha fatto dell’immagine e della comunicazione il suo cavallo di battaglia e la Dama si è prestata al gioco, oppure il gioco stesso è finito, e le verbali armi legali si stanno affilando lentamente nel miele di un’ampollosa dolcezza ottocentesca. Certo è, che come da sempre ha fatto, quando Veronica Lario decide d’apparire lo fa come un’attrice d’altri tempi, come una prima donna, che non amando le luci della ribalta sa come far puntare verso di lei i riflettori, alzando una posta conosciuta solo a lei, ma che porta nuove simpatie al marito.

Marco Bazzato
01.02.2007
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Marco Bazzato – l’ultimo trovatore del latinismo


Di Nellie Nedeva

Marco Bazzato è un poeta italiano che vive in Bulgaria, e pubblica le sue poesie in Bulgaro, è questo è importante, perché fa della sua poesia una proprietà culturale anche del lettore bulgaro, aprendo davanti a lui nuovi orizzonti nell’interpretazione dell’esperienza intima, e nell’estetizzazione della sofferenza, sui modi classici per tradizione latina estranea alla tradizione bulgara.
Come Marco Bazzato estetizza la propria sofferenza, è chiaro già dal suo primo poema, scritto all’età di ventiquattro anni. Il poema s’intitola “Un mese di gioie e dolori” ed è focalizzato sui suoi turbamenti a riguardo un grave intervento chirurgico. Il Poema è notevole per la sua designazione meditativa. È scritto con semplicità diretta, in prima persona e in tempo presente. Il soggetto lirico osserva con tale attenzione penetrante quello che accade nell’attimo con l’anima e il corpo, e da questo diventa una trasformazione inconsueta dell’umano tempo presente (il tuffo nel torrente degli eventi) nel tempo presente divino (l’osservazione dall’alto). Nunc fluens iridisce magicamente in nunc stans-alchimia che espia ad ogni passo la sofferenza e la trasforma in una pace spirituale.
Ecco, questa è una cosa che mai non ho scoperto nella poesia bulgara!
C’è un pensiero che “una parte del godimento che proviamo verso la grande poesia, è dovuto dal sentire parole non sono indirizzate a noi). Nel poema “Un mese di gioie e dolori” il verbo è con questo livello d’intimità. Lo stesso autore afferma nelle note dell’autore del libro, che fu costretto “a sormontare la sua forte opposizione iniziale”. “È stata una decisione sofferta,” continua lui ,”per l’alto coinvolgimento personale e familiare in quel periodo, che ora sento di poter condividere”.
Io sono riconoscente per questa condivisione. Essa mi rivelò gli orizzonti di una specie di poesia sconosciuta per me, fino a quest’attimo.
Il poema è scritto da un giovane uomo religioso. Nelle ore serali, prima dell’intervento, lui si isola in una Cappella per pregare. È schiavo di “mille pensieri, mille timori”,” lo spirito è scosso, l’animo confuso, il corpo vuoto”. La scenda davanti al crocefisso è commovente e vera (“Entro, con gesto nervoso mi segno…mi inginocchio, congiungo le mani…alzo gli occhi, osservo la croce, in quel momento mi sento capito, confortato, amato, mi sento vicino al Padre del mondo….mi alzo, l’animo è confortato, lo spirito è rinato…non ho parlato, non ho pregato, ma mi sento capito…”). In tre battute, c’è questo dialogo senza parole con Dio-“Mi inginocchio, congiungo le mani”, “alzo gli occhi, osservo”, “mi alzo, lo spirito è rinato”- un sacramento solitario di confessione e consacrazione, seguito dalla sensazione di espiazione alla fonte invisibile dell’esistenza.
La comunione con Dio è il primo dei tre “riti” serali prima dell’intervento. Il secondo rito è fumare un sigaro, il terzo è mangiare un’arancia. Tutti i tre riti sono trasmessi in una lingua sacramentale, essi si compiono come misteri, e non come atti profani. I riti sono pregni di contemplazione e di godimento nella loro esecuzione. Tutto è compiuto in modo assolutamente centrato, e con un’attenzione sottolineata; il soggetto lirico sa cosa compie e porta la consapevolezza del medesimo: “sono tranquillo, felice e sereno, ho fatto quello che ritenevo giusto, ho fatto quello che ritenevo andasse fatto in mia responsabilità”.
Il mattino seguente inizia la preparazione dell’intervento. Il punto cruciale è lo spogliamento dei vestiti, e il rimanere nudo. Questo spogliamento è trasmesso in forma passiva e forma attiva (“Mi fanno spogliare, mi tolgo tutto”); da quel momento fino alla fine dell’intervento, predomina la forma passiva (“Lentamente mi spostano” “portandomi via,”, “mi chiedono con delicatezza”, “mi coprono”, “mi osservano” etc) . La posizione del soggetto più frequentata “osservo tranquillo e sereno”-una prospettiva di imparzialità che irriga con una bianca luce contemplativa il passaggio dall’attività in passività e viceversa. Il soggetto muore e rinasce nuovamente, osservando dall’alto “tranquillo e sereno”. È come se palpassimo quella piccola vena della filosofia latina che permanente cerca i modi per vivere in modo invulnerabile il mondo. Una tale invulnerabilità non ha nulla in comune con il camuffamento e la maschera. Essa vuole una totale denudazione – come in un atto battesimale, nel varcare i confini esistenziali. Perché il denudamento getta la luce su quella linea tenebrosa tra il torrente delle emozioni e la coscienza osservante, delineando il secondo per conto del primo, come un vero letto d’invulnerabilità.
Io non ho mai letto una poesia così dell’essere, così franca e denudata in Bulgaro. Poesia priva di qualsiasi pretesa e ambiguità, però caricata di spiritualità, e la spiritualità sempre sorge dalla semplicità. Per una persona come me, abituata ad una lirica oggettivo-sensoriale, nel quale “l’essere” si narra tramite le forme attorno (piuttosto nascondendosi in esse), la poesia di Marco Bazzato, è una sorpresa. Questa poesia può essere scritta solamente da una persona arrivante da una cultura dell’Ego, irremovibilmente antropocentrica, com’è la cultura italiana.
Come tale uomo internalizza il dolore della carne violentata già lo sappiamo. Come però internalizza il dolore dell’animo innamorato, verso questo ci da la chiave il poema “Venezia per sempre”. Il poema è uno specchio estetizzato di un amore interrotto e rinnovato in uno spasimo tragico. Il filo conduttore di quest’interruzione e rinnovamento è così tipico nella cultura latina equilibrio tra continuità e discontinuità, dove come base storica c’è il cataclisma della caduta dell’impero romano, ed è espressione estetica, ed il patos di una sensazione di rottura che si deve guarire con il rinascimento, con la sequenza obbligatoria morte – risurrezione (problema ricercato magnificamente da Salvatore Settis nella sua opera “Futuro del “Classico”).
Perciò in “Venezia per Sempre” l’amore interrotto dalla morte, rinasce in un altro tempo\spazio. La cagione di questa resurrezione si può sintetizzare con l’inevitabilità per via dell’incompletabilità. La spiegazione è genialmente semplice – entrambi si conosciamo da una vita precedente, quando sono stati amanti in una remota Venezia rinascimentale, ma il loro amore fu lacerato da una separazione precoce (lui – come l’ammiraglio Agostino Barbarico – andò a combattere conto i Saraceni nel mare; partì in un giorno d’autunno nel pieno di “un autunno senza colori” come per una battaglia di Lepanto dove decade; questo certamente è solo una lettura spettrale della storia!). Più interessante è la lettera d’addio del soggetto lirico per l’amata, che da una visione verso l’avvenire del loro amore. Ambedue si reincarneranno nuovamente e s’incontreranno in un’altra vita, perché il loro amore tutto non può miseramente così. Ecco questo il filo della continuità intrecciata sopra le rovine della discontinuità, concentrata nella perspicacia filosofica “ la vita è un’eterna illusione, continuo riflusso in nuove vite, dimenticanti l’antico passato”. Il passato si dimentica, sopra la nuova vita cade il velo dell’oblio , che non permette all’individuo d’accorgersi che lui stesso è costruito non solamente della presente identità nazionale e religiosa, ma anche di una identità più ampia che inserisce le abilità passate in altri corpi. Giustamente la nostalgia per completare le esperienze passate, sono il motivo di nascere oggi, qui. Dunque il nostro presente risulta condizionato dalle cose per le quali dicemmo tempo fa sospirando “Perché il tutto non può finire miseramente così”. Queste cose sono il carburante delle nostre reincarnazioni. Vedersi faccia a faccia coi fatti delle nostre brame che ci conducono al completamento, ecco per questo ci vuole coraggio!
Non so quale motivo Marco Bazzato ha scelto di vivere in Bulgaria. Forse voleva sfidare se stesso, mettendosi in un ambiente linguistico e culturale estraneo. Una sua poesia scritta in Bulgaria, termina con le parole: “Senza dimora ed identità” che mi fa pensare che è arrivato in Bulgaria non per imparare ad essere bulgaro, ma per disabituarsi ad essere italiano.
Mi danno il pretesto le sue ricerche. Come ad esempio la sua proposta d’essere introdotto un articolo nella Costituzione Italiana che garantisce il dritto di Coscienza – diritto d’esprimere pubblicamente quella voce interiore che arriva dalla coscienza privata dell’individuo, ma dalla comune coscienza impersonale, verso cui la chiave è la sofferenza. La sofferenza è lo strumento che frantuma il guscio dell’ego, e snuda l’individuo della privacy (“Davanti all’umano dolore non esiste privacy, siamo tutti nudi innanzi ad esso”), e invece la nudità marchia quella capacità di varcare i confini esistenziali, i quali nella condizione nella condizione abbigliata sono insormontabili (Vedi i poemi “Un mese di gioie e dolori” e “Nero destriero”).
Quello che inquieta Marco Bazzato è anche la razionalità esagerata dell’ambiente moderno, portante alla trasformazione dell’individuo in “Piccola marionetta umana, nelle mani dell’uomo, allontano dall’Uno”. Appunto nel legame con Dio, nella capacità di vivere l’amore, Marco Bazzato vede l’ultimo porto per l’uomo, e il sostegno alle sue virtù. Lasciato senza essi, lui è un giocattolo per l’ambiente, il quale è solamente “Forza lavoro e consumo, senza culto e pietà”. Un ambiente condotto da una clinica convenienza, un ambiente – “Disegno di lucida follia, gli inferiori eliminati, i non produttivi sterilizzati, i parassiti sociali disinfestati”.
Marco Bazzato non vede via d’uscita. Lui è un poeta dell’Apocalisse, per lui ormai è tardi – l’umanità e già precipitata verso la stazione di non ritorno (“Stazione senza ritorno”), maestri oscuri lo conducono nel silenzio verso l’abisso (“Maestri oscuri conducenti in silenzio l’uomo all’abisso”). L’uomo non è già seme d’amore (“Non è più uomo seme d’amore”), non è già la donna antro di vita (Non più donna antro di vita”), falli e ventri e sterili, cicli arrestati, feto in uteri sintetici…tali incubi dipinge la sua immaginazione cattolica.
Io non ho un punto di vista per l’Apocalisse (una tradizione ripetuta spesso nella poesia latina). Può darsi che la civiltà sprofonderà, può darsi che la grazia intervenga nell’ultimo attimo – tutto è possibile, tutto è nelle mani dell’Assoluto. Quello che mi scuote è lo sguardo assetato verso l’essenza dell’uomo, verso quest’essenza sacrale che deve essere trattenuta ad ogni costo, nonostante le tentazioni d’essere strumentalizzata e focalizzata sotto l’occhio dissettivo del Tecnico di Laboratorio.
Quest’essenza è l’amore – saldamento e fondamento dell’esistenza. L’amore è sacramento, mistero. Impossibile d’essere controllato dall’uomo; lui può lasciarsi d’essere condotto solamente dall’amore (come dice Marco Bazzato “Mi sono lasciato guidare dall’amore”). Questo amore è un atto cosmico, nel quale entrambe le due metà divise dell’umanità si uniscono in un cerchio, dal quale nasce la vita. Il seme dell’amore disegna il primo arco, l’antro della vita disegna il secondo – come nella poetizzata metafisica di Aristotele, dove il principio maschile nasce il femminile, lo spirito – la materia, il seme – il frutto.
(Non mi è conosciuto nella poesia bulgara tale modo di romanzare l’atto del concepimento, che da un contesto universale del sentimento d’amore, aprendolo fino ad un oratoria potente per la creazione ad infinutum.
Abbiamo l’amore nelle sue intonazioni angeliche d’espiazione nelle opere di Javorov, abbiamo l’amore come dramma personale, come pretesto d’affogarsi nella screziatura del mondo che ci circonda, come motivo di dichiarazione e patetica, come un gioco delicato dell’erotica soggetto e oggetto, però l’amore come un atto cosmico della creazione – quello l’ho scoperto per la prima volta in Marco Bazzato. In modo diretto snudato senza nascondersi dietro a metafore).
Questo amore creante ha come motore il seme maschile. Esso è causa prima, sta nel fondamento del movimento verso l’arrotondamento, verso il ritorno alla fonte primaria. È morto il seme, è nero il seme – tutto è guasto nell’atto del concepimento. “Seme nero” è il titolo di uno dei poemi di Marco Bazzato è il segno di sterilità della nostra civiltà, e dal seme nero non può nascere nulla di sano – l’unico frutto maledetto di un peccato non espiato “Frutto maledetto di peccato inconfessato”.
Mi piace questa ricchezza d’immagini. Essa mi ricorda il “Giudizio Universale di Michelangelo, il nudo Adamo di Masaccio, La consolazione filosofico di Boezio, il massimalismo morale di Dante, le lacrime di rammarico davanti a Beatrice, sensualità ardente di Petrarca, la nudità regale dell’Uomo Vitruviano, le espansione di Ernani davanti alla camera matrimoniale , ancor di più altre cose come i bianchi archi pieghettati della mensa del Monastero di Santa Maria della Grazie, ripetuti nelle bianche falde della camicia lavata di Agnolo Doni dipinte dal Raffaello.

La Dottoressa Nellie Nedeva è Nata a Shumen, Bulgaria nel 1969. Laureata in medicina all'Università di Varna nel 1993. Ha vissuto a Città del Capo, Sudafrica dal 1995 al 2001. Dal 2001 vive in Nuova Zelanda dove risiede attualmente. Ha Pubblicato il libro “La donazione„. Ha vinto il premio speciale “Sviluppo„, Bulgaria – 2000, “l'unione Sacra nei miti e la letteratura„ (2006) e “Christ in Valentinian Gnosticism„ (2007) disponibili in forma elettronica. I suoi interessi sono la scrittura creativa critica letteraria, studi religiosi comparativi, il simbolismo gnostico nel cristianesimo.
© Traduzione di Vessela Lulova Tzalova

Marco Bazzato
01.02.2007
http://marco-bazzato.blogspot.com/