lunedì 23 marzo 2020

Covid-19: sospesi in un limbo


Credo che mai come adesso, non solo l’Italia e gli italiani, si sentano e ci sentiamo tutti sospesi in limbo. Dentro una bolla d’aria dentro le nostre case, in attesa che questo scherzo della natura, sempre che sia stato solo un fottuto scherzo del destino, abbia fine.

Già! Siamo chiusi in casa. Lasciamo perdere per il momento chi in questo momento può, od è costretto, per varie motivazioni, ad andare a lavorare. In tutta onestà non si può affermare che costoro siano dei privilegiati, dei baciati dalla Dea Bendata. Primi tra tutti i medici e tutto il personale sanitario che a seconda delle loro mansioni, combattono in prima linea questa guerra per tutti noi.

No. Il motivo di queste mie parole è rivolto a chi sta in casa. Persone sole, coppie di anziani. Famiglie con figli, grandi e piccoli. Famiglie con i genitori lontani o con i figli vicini, costretti a guardarsi attraverso lo schermo di uno smarphone. Famiglie con dei cari affetti da diverse patologie, diversamente abili. Insomma quella varia umanità di cui di solito, se li incrociamo lungo le strade, o fingiamo di non vederli, o se li vediamo, distogliamo il capo dall’altra parte, dicendoci tra di noi: meglio a loro che a noi, che a un nostro caro.

Mi rivolgo a quanti, abituati a uscire, a vivere la routine di tutti i giorni: uscita di casa, lavoro, aperitivo la sera, prima di rincasare, palestra, cena e poi nuovamente fuori con gli amici o con i compagni di ogni giorno, o come va di moda oggi, che si sono trasformati in runner improvvisati o che, non so quali dei due sia il peggiore, sono runner patologici, che è un disturbo riconosciuto dalla psichiatria – basta cercare su Google: “ossessione per il correre psicologia” Quelli che magari oggi, sono quelli che si lamentano più di tutti per la perdita della loro libertà. Che si lamentano per lo stravolgimento della vita e della quotidianità.

Ebbene, oggi, tutti, non solo costoro, sono sospesi in questo limbo d'incertezza.
A quanti si lamentano immotivatamente di questi futili motivi, per la perdita della libertà o di quella che prima credeva essere libertà, perché la vera libertà, che piaccia o no non esiste mai, se non si è liberi dentro, è giusto ricordare che nella vita ci sono delle priorità che vanno oltre il banale piagnisteo perché non si può fare la partita di calcetto, perché non si può fare la settimanale partita a tennis con gli amici. Non on si può andare a prendere l’aperitivo in piazza alle 18.00, appena terminato il lavoro, ola modaiola corsetta, emersa proprio con il manifestarsi del Covid-19. Che sia un effetto collaterale del virus?

La più grande priorità che abbiamo in questo momento è quella di non cedere agli inutili e banali sconforti della quotidianità perduta.

Non è cosa facile per nessuno.

Però in questo momento ci sono delle priorità da salvaguardare: noi stessi e la nostra salute, non solo fisica, ma soprattutto mentale.

Già. Forse in molti ancora non se ne rendono conto o se iniziano a rendersene conto, stanno iniziando a realizzare cosa significa perdere tutti i punti di riferimento. Quando presente e futuro appaiono nebulosi e oscuri, perché le presunte certezze che si credeva di avere si sono frantumate come neve al sole, e lo specchio della vita ora ci riflette solo le nostre immagini spezzettate in migliaia di frammenti, dove non sappiamo più come ricomporre noi stessi.
Questi sono i momenti i cui vediamo chi siamo. Cosa abbiamo dentro e quali sono le nostre riserve nascoste di volontà e soprattutto di speranza. La speranza. Che altro non è che l’ultimo “folle” baluardo utopico, per non cedere allo sconforto, all’ansia, alla depressone, alla tensione, allo stress, agli attacchi di panico e all’intolleranza di chi sta, rinchiuso in spazi angusti, solo, con poche persone o peggio ancora, con molte, rispetto agli spazi a disposizione.

Onestamente? Non credo che esista una ricetta valida per tutti per superare questi stati emotivi e claustrofobici. Questi stati ansiosi e depressivi, che possono colpire chiunque. Questo stress che potrebbe far venire fuori qualche febbriciattola atipica, quella linea di febbre che ti fa spaventare e credere di essersi beccati la “peste del ventunesimo secolo”.

Oppure, io non ho una ricetta e un consiglio da dare a nessuno, in quanto ogni persona è un universo a se; un micro e un macrocosmo emotivo che si muove con leggi rispettando delle leggi universali, iscritte appositamente però per ognuno di noi in ognuno di noi e che ogni singolo deve ed è costretto, oggi più di ieri, ad imparare, velocemente conoscere, riconoscere mettendo in pratica le adeguate strategie di sopravvivenza, per supportarsi le proprie “difese immunitarie psicologiche” e di riflesso anche e quelle fisiche, dato che le une e le altre sono indissolubilmente coniugate.

Ognuno, per sopravvivere in questo limbo deve imparare a conoscere le proprie debolezze e gestire al meglio le proprie risorse.

Io, per assurdo, e on voglio certo elogiarmi, sono una persona “fortunata”, in quanto sono stato baciato dal demone dei ricoveri ospedalieri fin dal primo mese di vita. Non sto a tediavi circa le mie traversie, come fossero un vanto o una vittoria Sono dati e fatti non essenziali per voi. Però forse potrebbe esservi utile la mia esperienza, che in parte, piaccia o non in molti, se non tutti, almeno una volta nella vita, sono stati costretti a sostenere: l’attesa davanti a uno studio medico. L’attesa per il referto – di vita o di morte – di un referto diagnostico, che potrebbe significare vita o morte. Quello di morte l’ho ricevuto più di una volta, ma oggi, per ora sono ancora qui. Ma anche questo non è importante.

Io quando oggi, ma non solo oggi, lo sconforto mi assale, e da normale essere umano, succede, visualizzo nella mente quei momenti. Quegli istanti eterni che non avevano fine. Nella mente vedo e rivedo il film dove ero protagonista e spettatore. Quelle lancette dei secondi che si muovevano nel quadrante dell’orologio affisso alla parrete del quarto Piano del Day Hospital della Pediatria di Padova o nell’altro reparto, che poi ho avuto il “piacere” di visitare, per soggiorni più o meno lunghi e checché ne dicessero gli altri degenti, il “rancio ospedaliero” nonostante la totale assenza di gusti e sapori, per me sono sempre stati banchetti stupendi, se ci stavano le pietanze di mio gradimento, naturalmente.

Ebbene, oggi, ringrazio quei momenti. Ringrazio quelle lunghe attese. Sì, le ringrazio perché mi hanno dato quel bagaglio esperienziale che mi permette di vivere questo limbo come un “già vissuto”, in quanto parte del mio essere. E in tutta onestà, credo che ognuno di voi, donne, uomini, giovani, adulti o anziani, avete sicuramente provato quel “tempo eterno dell’attesa”. Quel tempo e dentro di voi. Certo, potrebbe far male riviverlo, e potreste anche negarlo ma è in voi e dovete solo andare scovarlo e farlo uscire da quell’angolo buio della rimozione dove lo tenete celato, rapportandolo al vostro presente e, almeno così accade a me, e potreste sentire le tensioni psicologiche sciogliersi, o per lo meno allentarsi.

Come dico sempre a me stesso, se si fa una scala anche di tensione emotiva o psicologica da 1 a 10, dove 10 sta per esplosione, e si riesce a farla scendere anche solo di un punto, è un piccolo grande passo per noi stessi.

Oggi siamo rinchiusi entro quei piccoli passi, siamo costretti nelle nostre case, nei nostri appartamenti, nelle nostre abitazioni. abbiamo una possibilità che non era mai stata data prima d’ora: riscoprire e riscoprirci. E la grande sorpresa potrebbe essere che siamo migliori e più forti di quello che credevano di essere.

Dobbiamo solo accettare quella forze, credendo in noi stessi, scoprendo, anche se può far paura, quelle forze nascoste e celate dentro la mente di ognuno. Ce lo dobbiamo in primis e non per Ultimo per chi amiamo. Non farlo significherebbe perdere una magnifica opportunità prendere coscienza ch abbiamo delle riserve emotive molto più grandi di quelle che potevamo immaginare. Ciò che conta è avere il coraggio di andarle a cercare. Sono lì. Ci aspettano!
Marco Bazzato
23.3.2020


domenica 22 marzo 2020

Pandemia di Covid-19, non durerà poco, purtroppo!


Ormai è chiaro, la quarantena italica, ma non solo, non terminerà ai primi di aprile. Non terminerà nemmeno in maggio. Probabilmente manco in giugno o luglio. Ci sono troppi indicatori che volgono verso i tempi assai lunghi. Gli allarmi dei virologi. Il fatto che il virus stesso potrebbe, rispetto a quello cinese, essere mutato i Lombardia e non si sa se ha subito mutazioni, nel corso dei vari “attraversamenti delle frontiere”, adattandosi alle diverse specificità dei singoli Paesi. Nessuno lo sa. Gli stessi virologi brancolano al buio.
Il vaccino, semmai ci sarà non sarà disponibile prima di un anno e mezzo. Sono i tempi della sperimentazione e dell’approvazione, prima di essere inoculato a cittadini.
Ammesso e non concesso che un vaccino possa essere funzionale a livello planetario. E presumo che anche gli stessi biologi e virologi che lo stanno studiando, nutrano dei seri dubbi. Proprio per questo motivo le ricerche sono condotte dalle equipe dei singoli Paesi. Non tanto, presumo e forse anche gli stessi virologi lo presumono, per creare un vaccino che possa essere standard, ma perché potrebbe essere necessario, viste le mutazioni, crearne di specifici per le singole nazioni o gruppi anche ristretti di popolazione, suddivisi per aree geografiche.
Il quadro presente e futuro è a tinte non grigie, ma letteralmente nere.
Rimane un altro problema fondamentale che nessuno ha saputo dare una risposta specifica.
Gli asintomatici.
Ossia. Se una persona è asintomatica e quindi si muove liberamente, in virtù del fatto che sta bene, quanti continua ad infettarne o quanti può averne infettati nelle settimane passate? Nessuno lo sa. E soprattutto, quanti continuerà ad infettarne nelle settimane e nei mesi futuri, anche se uscisse di casa solo per lo stretto necessario, la spesa e la farmacia, in quanto essendo asintomatico potrebbe tranquillamente uscire senza alcuna protezione e se non tenesse le distanze minime, anche avendo una carica virale modesta, la possibilità che sia passata ad altri, non è pari rischio zero. Quindi, per la legge dei grandi numeri, l’incognita esiste. Ricordiamoci che in Cina è bastato un solo caso per far partire tutto.
Premetto, prima di proseguire, che non sono un virologo, ma quanto sto scrivendo è frutto delle deduzioni che sto facendo in questi giorni e di quanto ho elaborato nella mente, a seguito delle centinaia di articoli di varia natura letti da quando è iniziata l’epidemia in Cina.
Il mio auspicio più grande è di essere totalmente smentito dai fatti, da qui ai prossimi mesi.
Osservando però la curva di diffusione a livello europeo, la cosa non induce all’ottimismo, perché le crescite esponenziali nei Paesi europei aumentano di giorno in giorno, di ora in ora e al momento non si hanno dati univoci, sia sull’effettiva diffusione non solo in Europa o negli Stati Uniti , ma anche i Africa del Covid-19.
In molti non riescono a comprendere appieno quanto in Italia, ma non solo, sia grave la situazione sotto il profilo sanitario. Lasciamo perdere al momento l’aspetto economico e finanziario, dove sebbene non secondario, perché la gente deve pure vivere e mangiare, pagare le bollette e tutto il corollario che ci sta attorno, in molti non hanno chiaro che per via delle emergenze negli ospedali, tutto il sistema sanitario è virtualmente in stasi, fermo. Bloccato. Eppure le persone si ammalano lo stesso. Le donne devono partorire. Le persone in dialisi o che hanno altre patologie devono continuare ad essere seguite e via di seguito. Tutto però oggi cammina a velocità ridotta.
La macchina sociale e della società, non solo italiana, si è fermata. O se non si è fermata completamente, si muove con al lentezza di una lumaca, in quanto ogni passo verso un’accelerazione, potrebbe portare verso l’accelerazione stessa dalla diffusione dell’epidemia. Insomma è un enorme buco nero che sta inghiottendo la società italiana e on solo. Ogni giorno che ci piaccia o no, i cittadini italiani ed europei stanno al bordo dell’orizzonte degli eventi, dove il centro del buco nero è la malattia, la terapia intensiva e infine la morte. Sebbene è giusto ricordarlo, dati di ieri della Protezione Civile Italiana, il numero di morti PER Covid-19 è dello 0,8%, il restante 91.8% sono morti CON Corona Virus, ossia che avevano altre gravi patologie e che il Covid-19 ne ha “solo” accelerato la morte. Ma sono ancora cifre indicative, in quanto non validate completamente dall’Istituto Superiore di Sanità.
Sussiste però anche un altro problema, che al momento viene sottostimato. Quanto le singole famiglie possono avere la forza emotiva e psicologica di rimanere chiusi all’interno delle loro abitazioni? Certo, per chi vive in una casa singola con giardino, con del verde all’interno è come un carcerato che può avere varie ore d’aria nell’arco di una giornata. Ma per coloro che sono confinati in appartamenti piccoli per il numero dei loro componenti? Quanto tempo passerà prima che questi sviluppino delle fobie, delle intolleranze, l’uno verso gli altri e che gli stati di tensione famigliare si esasperino?
E poi, il rimanere confinati dentro gli appartamenti, piaccia o no, fa partire l’ennesimo circolo vizioso dell’abbassamento del sistema immunitario, esponendo i soggetti più deboli al rischio di malattie, infezioni, dove anche un semplice batterio potrebbe causare anche polmoniti o anche solo altre patologie, certo meno gravi, ma che destabilizzano situazioni già precarie.
Senza dimenticare che vi viene continuamente ripetuto di sanificare le superfici della casa, per evitare il diffondersi del virus. Vero. Però ci sta anche il rovescio della medaglia. Le nostre case rischiano di diventare ambienti quasi asettici. Riducendo in modo considerevole il numero di batteri presenti negli ambienti, il corpo umano potrebbe smettere di produrre quegli anticorpi che aveva creato, come normali difese, rendendo il nostro sistema immunitario meno resistente, facendo partire un nuovo circolo vizioso.
E quando tutto ciò finirà, nessuno sa tra quanti mesi, quanto saranno indeboliti i nostri corpi, proprio per via forse di questo eccesso di igiene?
Il sole. Non dimentichiamo che l’essere umano ha bisogno anche della luce solare e stare giorni, settimane o mesi, indebolisce non solo il sistema immunitario, ma anche l’apparato scheletrico, soprattutto negli anziani, ma non solo, causato sia dall’assenza della luce solare diretta e anche dall’assenza di movimento. Di quel minimo di 5000 passi al giorno che sarebbero necessari per evitare l’accumulo di peso e per mantenere tonici i muscoli.
Ho calcolato che, muovendomi ne mio appartamento, oggi non supero i 500 passi, meno di trecento metri nell’arco delle ventiquattro ore. Quando, come ho scritto sopra, il minimo dovrebbe essere di almeno 5000.
L’uomo si è evoluto fino alla forma attuale nell’arco di milioni di anni, adattandosi al cambiamento dell’ambiente circostante e adattandolo alle proprie esigenze. Oggi ci viene chiesto di fermare improvvisamente, non si sa per quanti mesi, in quanto anche se la pandemia finisse a fine giugno in Italia, vanno considerati gli altri Paesi e con la riapertura della frontiere, anche l’arrivo in Italia di un solo asintomatico, potrebbe potare alla ripartenza del tutto, nuovamente. Perciò è anche probabile che per dichiarare finita la pandemia ci vogliano almeno dai due ai tre anni. Non meno. Sempre che no si ripresenti poi a cadenza periodica, con forme locali più o meno virulente.
Tutti gli indicatori che ho analizzato in questi periodi non inducono al facile ottimismo e credo che anche il nostro governo sappia che tutto ciò potrebbe avere almeno una durata di sei mesi. E ciò lo si potrebbe dedurre da questo documento, trovato in rete: http://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/D20014.pdf?fbclid=IwAR0clBvESee0-R516PVDLTRqBHPwOTzBuL0I2JmYfIgRc6g9zDAtXo_wL64 del Servizio Studi della Senato della Repubblica Italiana che recita espressamente: “Per tutta la durata del periodo emergenziale, fissato in sei mesi dalla Delibera del Consiglio dei ministri 31 gennaio 2020 (dal 31 gennaio al 31 luglio 2020)…”, Articolo 6, pagina 23 del file PDF.
In sostanza ci attenderà un lungo periodo di “mutazione” non solo legato al fatto di essere confinati in casa, ma anche di “mutazioni emotive, caratteriali e comportamentali, che incideranno a lungo alle sula psiche e sulla salute fisica dei singoli cittadini.
Ho, tra gli innumerevoli altri quesiti che mi girano in testa, due e domande: se alla fine fossimo costretti, a livello planetario ad arrivare all’immunità di gregge? Sempre che ci si possa arrivare, nel caso che il Covid-19 non mutasse, quanti saranno i morti in totale?
All’inizio dell’epidemia, a gennaio, scrissi che se sarebbe stata confermata la media del 2,3% della percentuale di morti, il numero sarebbe stato attorno ai 300 milioni. Il genere umano non si estinguerebbe per questi “numeri esigui” in rapporto alla popolazione mondiale. Però significherebbe solo che il mondo come lo abbiamo conosciuto fino a poche settimane fa, sarebbe un modo e un avita personale e sociale, completamente differente dal quella odierna e che sulle ceneri della vecchia società , si sarebbe costretti a costruire in nuovo modello umano e sociale.
Per vedere se tutto ciò sarà vero, e spero veramente di essere in palese errore, i prossimi due o tre anni, per i “sopravvissuti”, saranno fondamentali.
Marco Bazzato
21.03.2020

martedì 25 febbraio 2020

Perché trovo più che legittimo il panico da Corona Virus?


Lo scrissi fin dall’inizio: il Corona Virus, che in seguito sarebbe stato ribattezzato Covid-19, mi fece immediatamente venire in mente il romanzo di Stephen King, “L’ombra dello scorpione”, di cui in tempi diversi lessi sia la versione “breve”, così come quella estesa. Con la “piccola” differenza che nel romanzo del Re dell’horror il tasso di mortalità era del 99,4%, contro uno striminzito 2,5%, stando alle mie prime stime attuali, già dai primi giorni. Stime in questi giorni rivedute al ribasso.

Le dinamiche comportamentali non sono differenti e mi riferisco al romanzo di Tom Clancy, “Potere Esecutivo”, dove il  Presidente degli Stati Uniti, Jack Ryan, mise in atto il piano estremo, denominato “segregazione”, quella che noi, volgarmente, chiamiamo quarantena, con le stesse identiche dinamiche che ha prima applicato la Cina, nella provincia epicentro dell’epidemia e poi successivamente quanto sta accadendo oggi in Italia, con due regioni, con alcuni comuni in quarantena.

Il principio è lo stesso: segregazione, come dicono gli americani, dato che siamo assai anglofoni, quando ci fa comodo.

E ora veniamo al punto essenziale, perché trovo più che legittimo e giustificato il panico che si è scatenato nella popolazione. Per un motivo molto semplice. Perché il principio di precacauzionalità che legittimamente vale per i singoli Stati, per proteggere la salute dei cittadini, come loro dovere. Ebbene questo principio, ha avuto, come era lecito e legittimo aspettarsi, conseguenze sociali ed economiche a cascata. Non va dimenticato che in tempi oscuri, come sta accadendo da quasi un mese, vale, sia per gli Stati che per i singoli cittadini, il principio del “Si salvi chi può” oppure “Ognuno per se e Dio – per chi ci crede, naturalmente vale  per tutti, dal macro al singolo.

Quindi è inutile stare tanto a menarcela ed ascoltare i media, i giornalisti e soprattutto i quotati esperti in tali materie, che nemmeno sono d’accordo tra di loro, che continuano a lanciare appelli alla calma e non farsi prendere al panico. “Di ad una persona di non fare una cosa e quella persona – o quella società – si comporterà in modo diametralmente opposto. Quindi, un po’ di psicologia inversa non farebbe male da parte di tv e stampa e social network.

Oggi ci si stupisce dei supermercati vuoti . Sarebbe stato assurdo se fosse stato il contrario.  Già, perché soprattutto i cittadini che si trovano nelle zone interessate alla “segregazione”, adoro il termine del romanzo di Tom Clancy, essendo letteralmente confinati entro il perimetro delle zone interessate è normale che, potendo recarsi solo a fare spese, facciano incetta di generi di prima necessità, fottendosene, legittimamente delle necessità e dei bisogni altrui, seguendo il motto latino: “Mors tua vita mea”, “La tua morte è la mia vita!”.



E cos'altro dovrebbe fare il singolo cittadino? Farsi fregare il cibo o il disinfettante, la mascherina – che dicono non serva un emerito cazzo, oltretutto – e lasciare che l’acquisti qualcun altro? Per la serie: meglio che stiano senza glia altri, piuttosto che rischi di rimanere senza io, questa è l’amara e naturale verità del dell’animo umano, a tutti i livelli, da quello politico, chiudendo la frontiere, non facendo atterrare  i voli, ma non i barconi della ONg, perché in Italia siamo dei geni, salvo poi metterli tutti in quarantena, a spese della collettività.
 Già, perché il ragionamento politico, è che crepino a casa loro e non vengano ad appestarci in casa nostra, salvo poi dirsi indignati quando siamo noi che rischiamo di andare ad appestare in casa d’altri, allora ci sentiamo offesi, se legittimamente ci sbattono la porta in faccia! Quanto siamo patetici e ridicoli, no?

Ma se lo fa il privato cittadino, che non vuole accostarsi allo  presunto untore straniero o di un’altra regione, ecco  che da infingardi, alcuni gridano al razzismo o altre amenità varie, dimenticando che lo stesso principio di precauzionalità applicato su scala individuale o locale. Ma ciò scatena l’esecrazione di politici e ben pensanti, che pochi minuti prima avevano ordinato lo stesso, su scala internazionale, regionale o comunale, impedendo l’accesso o l’uscita delle persone dalle zone interessate, oppure chiudendo corridoi aerei o ferroviari.

Diciamocelo, il Corona Virus ci fa cagare sotto tutti, nessuno escluso. Sia esso il politico, come l’ultimi dei tangheri ubriaconi di qualche villaggio sperduto in mezzo ai monti.

 Perciò ribadisco il concetto: l’altruismo in certe situazioni può significare rischi per se stessi e per i propri cari. E smettiamola di fare gli ipocriti: ci si  dispiace solo se si ammala o muore una persona vicina, un amico, un parente, un conoscente, ecco che allora la cosa diventa una tragedia e un dolore personale. Per tutte le altre morti, vale la frase che viene attribuita ad “Acciaio – in italiano –  Stalin: “Un morto è una tragedia, un milione di morti sono una statistica”, ecco perché a i morti altrui, checché  se ne dica pubblicamente, solo per convenzione sociale, de facto, se non direttamente o indirettamente collegati, non ce ne può fregare di meno.

Ora, dopo questa immersione nel cinico e nel pragmatico, veniamo alle presunte buone notizie, se ce ne sono.

Il virus non è molto mortale, il tasso di mortalità non supera il 2,3% e ciò significa che se anche contagiasse tutti gli abitanti del  terzo pianeta del Sistema Solare, per chi non lo sapesse, questi è il pianeta Terra, il numero totale dei morti non supererebbe i 300 milioni, rispetto al numero di abitanti attuale, la continuazione della razza umana sarebbe comunque garantita. Niente estinzione, oppure solo rimandata.

Un’ altra nota “positiva”. È un virus che in minima parte aiuta i vari sistemi pensionistici, in quanto la maggioranza delle vittime sono persone molto anziane –  sovente con già malattie croniche e scarse difese immunitarie  e il Corona Virus o Covid-19 gli assesta solo un piccolo colpetto, scaraventandoli all’altro mondo –  quindi pensionati e ciò garantisce, seppur in modo al momento minimale, minori pensioni da erogare agli ultrasettantenni. Insomma, una forma letale dalla vita di “Esodati!”.

IL tasso di guarigione sembra essere, il condizionale è d’obbligo, dato che al  momento non ci sono certezze, assai elevato, oltre l’80%. Sembra che i giovani, sotto una determinata fascia di età, se lo possano beccare, ma senza alcun tipo di conseguenze.
 Insomma, per la serie, ci sta un’anarchia di informazioni scientifiche e mediche che sovente si contraddicono a vicenda, il che porta a pensare che il famoso detto “La scienza non è democratica” di Roberto Burioni, continui ad essere smentita dai fatti e   i precedenti circa il fatto che la scienza è democratica, sono innumerevoli, ma non è questa la sede di tale approfondimento.

Che altro aggiungere: reputo in queste situazioni l’egoismo individuale un diritto e un dovere civico per salvaguardare soprattutto se stessi e i propri cari, tutto il resto è relativo.
Se qualcuno prova a dire qualcosa in senso opposto, basta pensare alla reazioni delle borse, alle ingenti perdite che hanno subito in queste settimane e di come sia schizzato alle stelle prezzo dell’oro, come bene rifugio. 

Ciò che vale per la finanza, allo stesso identico cinico modo, vale per gli Stati, le regioni, i comuni, le città, i paesini, i singoli cittadini, dove ognuno, a modo suo, è tenuto a tutelare se stesso e  propri interessi.
Ad una sola condizione: rimanere all’interno della legalità e poi tutto il resto  è un diritto ed è consentito.

Marco Bazzato
25.02.2020

venerdì 22 febbraio 2019

È morta la mia maestra delle elementari, Lidia Giantin Pietrogrande

Ho appreso giusto poche ore fa della morte della mia maestra delle elementari, Lidia Giantin Pietrogrande.

Per tutti noi, almeno per i miei compagni della scuola elementare Leonardo da Vinci di Vigonovo, sezione B, era semplicemente la “Signora maestra” o al massimo “Signora Pietrogrande” – così si usava negli anni ’70 della fine del millennio scorso.

È quasi passato mezzo secolo e i ricordi di quegli anni, come un geyser, emergono alla mente e con essi il primo giorno della seconda elementare, quando ci fu cambiata sia aula, sia insegnante.

Si entrava dall’ingresso della scuola, si prendeva la rampa di scale alla sinistra, si salivano due rampe e poi a sinistra ci si immergeva in un lungo corridoio  con tre aule,  la nostra, eravamo in ventiquattro, era la prima: soffitto alto, pareti grigie fino ad un metro  e mezzo e poi il resto bianco immacolato, tre ampie finestre che davano sul cortile, da cui si intravvedevano due vecchi platani.

 I nomi li ricordo ancora tutti, ognuno banco per banco. Eravamo disposti in quattro file composte da tre banchi, in ognuno ci si stava in due, scomodissimi, con ancora i buchi per i calamai. Al mio fianco R.E – citerò per motivi di privacy solo le iniziali. Dietro P.T e C.L. Io e la mia compagna di banco ci trovavamo nella fila centrale, quasi innanzi alla cattedra.

In quel primo giorno entra in classe questa donna, ai miei occhi bambino sembrava altissima, portava un lungo camicie nero . Si presentò dicendo: «Io sono la vostra nuova mastra, il mio nome è Lidia Pietrogrande e fece un ampio sorriso. Dovrete chiamami “Signora maestra”, poi prese il registro e fece l’appello.

 Il primo insegnamento che ci diede fu che dovevamo alzarci sempre dai nostri banchi, fare un passo di lato, quando entrava un adulto, mettere le mani dietro la schiena, salutare e attendere un cenno della mano, o un «Seduti.» prima di tornare nuovamente ai nostri posti e sederci. All’inizio e al termine della lezione, quando entrava e quando usciva, in coro: «Buon giorno, signora maestra.» e cosa più importante, noi maschietti dovevamo cedere il passo alle bambine,in segno di rispetto nei loro confronti. Così  si insegnava in quegli anni.

Le lezioni iniziavano con il segno della croce,una preghiera. La maestra ci faceva chiudere i libri cinque minuti prima del termine del suono della campanella, sempre con il segno della croce e una preghiera, poi, in fila indiana, con lei davanti, ci scortava verso l’uscita e ci guardava uscire dal dall’edificio e scendere i quattro gradini. Fatto ciò, con i testi scolastici al tenuti all’altezza del seno con una mano, con l’altra teneva la sua borsa, si incamminava verso casa. Abitava in una casa con un minuscolo giardino, un cancello bianco e all’interno, quando ci andai per la prima volta, ebbi la sensazione di entrare in salotto che in seguito avrei associato ai salotti inglesi della fine ottocento.

La “Signora maestra”, voglio nominarla così anche oggi, perché così ho continuato a nominarla in seguito, anche dopo più di trent’anni, era una donna d’altri tempi, un’insegnante di vecchio stampo, proveniente da un’epoca che oggi appartiene ai ricordi di quasi mezzo secolo fa.

Era una strana “madre”: austera, severa ma tremendamente innamorata del suo lavoro. A modo suo credo che abbia sentito sempre come figli suoi tutti gli allievi che ha avuto nel corso dei suoi anni di insegnamento. Sapeva insegnare, spiegare con semplicità e rigore, anche le materie che allora erano complesse per le nostri piccole teste in perenne agitazione e formazione.

 Tra i tanti ricordi che emergono in questo momento, due sono predominanti. Il primo riguarda una lezione sulle nuvole, su come riconoscere a prima vista le nubi temporalesche, il colore che queste avevano prima dell’arrivo di un temporale – da queste parti i temporali che giungono dal Garda sovente ancor oggi causano danni – e le differenti colorazioni legate al fatto che potessero portare grandine. Ci disse che si poteva capirlo sia conoscendo da che parte giungeva il vento, sia dal leggero grigiore della medesime, indice di una differente temperatura al suo interno.

L’altro invece è legato a due poesie: “La spigolatrice di Sapri” di Luigi Mercantini e “I Pastori – Settembre” di Gabriele D’Annunzio. In entrambi i casi dovevo impararle a memoria per il giorno seguente, ma casa non le studiai, troppo impegnato a guardare i cartoni animati giapponesi. Fui però fortunato in quanto, prima di giungere a me, aveva fatto il giro con gli altri compagni, così quando venne il mio turno, riuscii a recitarle fino alla fine.

 Era una donna moderna per la sua epoca, ma di una modernità possiamo dire quasi aristocratica, austera. Una delle poche concessioni che lasciava intravvedere sotto il nero grembiule, in pieno inverno, erano i classici maglioni di lana che andavano di moda in quegli anni. Sui lobi delle orecchie portava sempre un paio di orecchini, non vistosi, ma anch’essi esprimevano un lato della sua personalità. Solo una volta ricordo d’averla vista con i pantaloni lunghi, perché la sera precedente c’era stata una furibonda nevicata e si presentò in classe – tutti ne rimanemmo stupiti – indossando un paio di pantaloni scozzesi e scarponcini da montagna. Quella fu l’unica concessione che fece in quattro anni, altrimenti indossava sempre lunghe gonne di colori scuri o tinta pastello.

 Era debole di gola. In quei quattro anni non deve aver fatto più di una settimana di assenze. Spesso, infatti, arrivava a lezione con qualche linea di febbre. Ciò non la scoraggiava e nonostante avesse gi occhi lucidi, riusciva, credo anche grazie al suo carisma, a far danzare l’intera classe a suo comando, dome un navigato direttore d’orchestra.

Aveva le dita magre e affusolate, con la parte interna del pollice e il polpastrello dell’indice perennemente imbiancato, così come parte della manica e del gomito del braccio destro, dalla polvere di gesso che le rimaneva tra le dita. Aveva una bella calligrafia, non solamente quando doveva scrivere sulla lavagna per noi bambini, ma anche da “civile”, fuori dal ruolo di mastra, probabilmente perché sentiva di essere “maestra” in ogni momento.

A mio avviso non era una donna facile alla confidenza, però era una donna che sapeva far aprire le persone, sapeva ascoltare, imponendosi con una dolcezza ruvida, ma mai cattiva, una ruvidezza apparente, perché forse così è che per quattro anni la videro i miei occhi e presumo anche gli occhi degli altri miei compagni della sezione B di quegli anni.

Era una “Signora maestra “ che badava al sodo. Come sapeva premiare, sapeva anche punire. Perché in quegli anni il concetto di punizione della maestra era visto dalle famiglie come un’estensione delle punizioni genitoriali, soprattutto se non ci si comportava bene o se non si faceva il proprio dovere, come i genitori si attendevano da noi, senza proteggerci, a differenza di ciò che troppo spesso accade oggi, dove i figli sono innocenti a prescindere.

Un’ultima nota prima di terminare queste righe in sua memoria: a casa conservo ancora il piccolo Vangelo, con la copertina rossa, che regalò a tutta la classe, al termine della nostra Quinta B.
Grazie, signora maestra, ora sei con il tuo Giuseppe.
Marco Bazzato
22.02.2019

lunedì 17 settembre 2018

Società Autostrade dovrebbe pagare (al momento) per il crollo del ponte Morandi?


È passato poco più di un mese dalla tragedia del Ponte Morandi di Genova. Tragedia, sembrerebbe ampiamente annunciata dalle Cassandre, dai gufi che quotidianamente appestano il becero populismo disfattista italiano.

 Tragedia che poi puntualmente, perché la morte, per tutti e anche le disgrazie, più o meno annunciate, non arrivano mai in ritardo, non perdono mai il treno, non saltano le coincidenze, ma le tragedie, invece, cavalcano le coincidenze, gli incroci del destino bieco e famelico di vite umane, tirandosi dietro quel carico casuale di morte, sofferenza e strascichi inevitabilmente polemici, dove alla fine quanti erano caricati dell’onere del controllo sapevano, ma pregavano che non avvenisse mai.

Ora però e qui mi attirerò addosso una camionata di insulti e contumelie, in linea prettamente teorica, Società Autostrade, che fa capo al gruppo Altlantia, con la maggioranza relativa in mano alla famiglia Benetton, non dovrebbe essere investita dell’onere di pagare la ricostruzione del Ponte Morandi e dei danni materiali, morali e umani che questa “roulette russa” caricata a cemento armato, ha causato.

Certo, Società Autostrade era de è responsabile del Ponte che gli era stato dato, assieme ad una buona parte della rete autostradale italiana, in concessione e che era, come del resto lo è tutt’ora, responsabile delle strutture che gli sono state affidate, però e qui casca l’asino, e le inchieste della Magistratura che si è attivata un secondo dopo il crollo, sta facendo emergere una serie di corresponsabilità circa il controllo della struttura, dove coloro che dovevano non solo vigilare, ma mettere anche nell’avviso che la struttura  ormai era logora, da quanto sembra emergere, nelle loro relazioni, hanno sempre evitato di scrivere chiaramente che gli stralli del ponte erano usurati e che l’intera struttura necessitava non solo di manutenzione ordinaria, ma di lavori straordinari di riqualificazione e messa in sicurezza.

Perché purtroppo, in Italia, accade sempre così, chi è responsabile di qualcosa, soprattutto quando si tratta di opere pubbliche, quando deve relazionare, relaziona in modo “untuoso”, sfumato,relaziona in modo da dire e soprattutto non dire, in quanto anche il dire troppo,  potrebbe portare ad un procurato allarme, nel caso che certe relazioni tecniche  di ingegneri incaricati o periti, finiscano nelle mani della stampa. 

Ma siamo sicuri che le responsabilità siano solo di Società Autostrade e quanti al Ministero delle Infrastrutture dovevano vigilare sulla sicurezza del Ponte Morandi?
Voglio fare un’ipotesi, lasciando fuori le perdite per i mancati pedaggi non riscossi nella tratta del Ponte, da parte di Società Autostrade e i costi di messa in sicurezza che si sarebbero dovuti sostenere e non parlo di manutenzione ordinaria, che erano previsti per ottobre di quest’anno, ma i costi straordinari, non solo diretti, in capo a Società Autostrade, con la chiusura a tempo indefinito del medesimo, ma i costi indiretti per il porto di Genova, il sistema di trasporti locali, sia dei cittadini che del movimento marci da e verso il porto di Genova, visto che su quella struttura gravitava il maggior flusso di traffico?

Ammesso e non concesso che Società Autostrade avesse deciso di chiudere il Ponte in entrambi i sensi di marcia per un tempo indefinito, si può escludere a priori che non siano giunte alle orecchie, in modo informale, senza comunicazioni scritte o telefoniche, pressioni a vertici di Società Autostrade, affinché quel tratto, nonostante gli evidenti problemi di instabilità che la struttura mostrava da tempo, non venisse chiuso, onde evitare un danno economico non indifferente a tutta la rete autostradale, stradale, non solo della città di Genova, ma dell’intera regione Liguria e oltre, in quanto il porto di Genova è di rilevanza non solo nazionale, ma internazionale, essendo il primo porto merci italiano?

Non è che Società Autostrade sia stata troppo avventata, sotto l’onda emotiva della tragedia, nello scucire, pochi giorni dopo 25 milioni di Euro, per venire incontro alle prime spese degli sfollati che sono stati costretti ad abbandonare in fretta e furia le loro abitazioni, entro la zona rossa, per il timore che quanto rimane del ponte potesse causare una nuova tragedia?

Tirare fuori quei 25 milioni sull’unghia, non è stata un’ammissione di responsabilità, in assenza di una sentenza definitiva che ne decretasse le effettiva responsabilità della Società Autostrade?

Per quale motivo dovrebbe essere Società Autostrade a dover anticipare i costi di ricostruzione del Ponte crollato, in assenza di una sentenza definitiva?

Secondo l’opinione di molti esperti, chiaramente assai più autorevoli dello scrivente, il ponte  aveva egregiamente svolto la sua vita  operativa, in quanto, secondo le tecniche e tecnologie costruttive dell’epoca di fu progettato, agli inizi degli anni ’60, del secolo scorso, iniziato nel ’64 e inaugurato nel 1967, dove all’epoca, con il carico di traffico stimato in quel periodo, si prospettava una vita non superiore ai cinquant’anni, anche se alcun asseriscono che così non è. Infatti la ridda di opinioni contrapposte e contraddittorie continuano ad infiammare le pagine dei giornali e le trasmissioni televisive dedicate all’evento.

Ma perché lo Stato ora vorrebbe che il ponte venisse ricostruito a spese di Società Autostrade, anche se dalle prime indagini della Magistratura sembrerebbero emergere delle corresponsabilità, circa il mancato controllo della struttura? Certo, il ponte era ed è tutt’ora, seppur sottosequestro in concessione a Società Autostrade, ma l’effettiva proprietà non è di Società Autostrade, nonostante questa abbia l’obbligo di esserne zelante custode, ma la proprietà è dello Stato Italiano, il quale dovrebbe essere questi a farsi carico della ricostruzione del medesimo, salvo poi, dopo sentenza passata i giudicato, non si sa dopo quanti anni, rivalersi su Società Autostrade, obbligandola a risarcire la sua parte di danno, visto che  si presume che alla fine della storia, tra circa una decina d’anni come minimo, sarà accertato che sussistono delle corresponsabilità oggettive tra pubblico e privato e se il Ministero dei Trasporti pretendesse di imporre a Società Autostrade la ricostruzione del Ponte, dando per certa la sua totale colpevolezza, lo Stato, tramite il Ministero dei Trasporti, andrebbe a sostituirsi alla Giustizia Ordinaria e al ruolo non solo degli organi inquirenti, ma anche degli organi giudicanti, non essendoci al momento,  visto che le indagini sono ancora nelle fasi preliminari e i tempi per arrivare al primo grado, saranno assai lunghi, il Ministero dei Trasporti, andrebbe a travalicare le sue prerogative istituzionali o per dirla in modo semplice, “mettendo il carro davanti ai buoi!”

Società Autostrade è responsabile del crollo del Ponte Morandi?

 In base a quanto ascoltato e  letto fino a questo momento, non  me ne vogliano i famigliari delle vittime e gli sfollati della zona rossa, non me la sento di puntare l’indice contro la società concessionaria, additandola come unica responsabile dell’evento. Sono troppe le variabili e rivoli di responsabilità diffusa che si possono essere intersecati nel corso degli anni e che hanno fatto si che si giungesse a tale situazione.

Il punto focale, a mio avviso è un altro: allo stato attuale viviamo in una “società burocratica” che quasi impone come modello comportamentale l’assoluta incapacità di prendersi, innanzi alle professioni che si svolgono, il peso delle proprie responsabilità e il fardello di dover decidere, un po’ come facevano gli imperatori romani nell’Anfiteatro Flavio (Colosseo) quando “pollice su” significava vita e “pollice giù”, equivaleva a morte, mentre la moderna società attuale impone a chi sta negli snodi cardini delle responsabilità e del comando, il pollice orizzontale, ossia in bilico, in precario equilibrio tra sì e no, tra vita e morte, in un eterno processo di stasi, di sospensione, di realtà alterata, aspettando e pregando che il cerino acceso bruci le dita di qualcun altro.

La tragedia del Ponte Morandi si poteva evitare? Con il senno del poi, certamente sì.
Però con il pensiero del prima del poi, no, in quanto tutti, pur di non prendere decisioni, rimanendosene con in pollici in orizzontale, auspicavano che ciò che intimamente e ufficiosamente sapevano potesse accedere da un momento all’altro, ma che non potevano o volevano dire esplicitamente, cambiando il corso della storia, sarebbe accaduto, poiché il destino, che lo si voglia o no, non può e soprattutto non vuole essere cambiato, in quanto perché avvenga un minimo cambiamento in qualcosa è risaputo che la tragedia, la morte, il trauma, lo shock, sono una necessità, un’onda sismica di breve durata, che fa vedere i sui effetti per un periodo relativamente breve, per poi tornare in stato apparente di chete, mentre tutto come un magma di pollici in orizzontale continua a muoversi nel sottosuolo, fino alla prossimo sisma, al prossimo cataclisma, dove neppure il fato, però ci mette il naso, ma solo il destino già scritto degli eventi che inevitabilmente dovranno avvenire.
Foto: dalla rete
Marco Bazzato
17.09.2018

lunedì 27 novembre 2017

Olio di Cocco Nativo


Perché parlare oggi di olio di cocco?
Solo per una semplice moda, o perché dietro al trend del momento ci stanno secoli di storia, iniziata nel sud-est asiatico che noi occidentali abbiamo imparato ad apprezzare da un tempo relativamente breve?

Certo, sovente le mode vanno e vengono, tornano, si evolvono, mutano, ma certi valori rimangono inalterati nel tempo e uno di questi valori è proprio l’Olio di Cocco.

Lo ammetto, fino a poco tempo fa conoscevo l’Olio di Cocco solo per sentito dire, ma poi, iniziando ad interessarmi per diletto, mi sono messo a leggere pagine e pagine web in rete, sugli effetti positivi per la salute umana ma non solo di questo straordinario prodotto, prodotto di cui però bisogna essere certi della provenienza e soprattutto che sia vero Olio di Cocco Bio.


Ed è così che mi sono imbattuto in una nuova realtà commerciale tedesca, nata nel 2016 che oltre ad altri prodotti Bio, ha fatto una mssion importante, la vendita al privato, tramite Amazon, oppure per gruppi d’acquisto italiani, associazioni animaliste, parrucchieri, ristoratori,dentisti,  aziende che interessate all’acquisto in stock, da proporre alla loro clientela con il  loro brand, rivolgendosi direttamente allo scrivente, per ulteriori informazioni e/o per ricevere offerte dettagliate.

Perché ho parlato di gruppi d’acquisto?

Perché il gruppo d’acquisto offre l’opportunità di ottenere degli sconti quantità, facendo un'unica spedizione, abbattendo così non solo il prezzo unitario, ma anche i costi di spedizione, franco destinatario.

Certo, prima di dire ok a tutto ciò, ho voluto informarmi sulla realtà aziendale e sulla provenienza del prodotto importato in Europa, e stando a quanto scritto nel sito dell’importatore, il Coco nativo, proviene dallo Sri Lanka. Alla luce di tutto ciò, per sincerarmi ancora meglio della bontà del paese di provenienza, nei giorni scorsi ho scritto ad una persona molto attiva nel mercato equosolidale, la quale, è stata ben felice di apprendere che il prodotto non veniva importato da altri Paesi del sud-est asiatico,che non rispettano né i diritti umani e nemmeno quelli animali (scimmie).


Perché credo nella bontà di questo prodotto?

Perché avendo parlato per settimane via Skype con l’importatore tedesco, ho potuto apprezzarne la serietà, la professionalità la preparazione anche e  sotto l’aspetto etico e questo mi ha convinto dell’alta qualità dell’Olio di Cocco Bio Native, unita alla certificazione presente nell’etichetta di ogni singola confezione il “Ceres Certified”, sito in inglese, tedesco e spagnolo, che ne garantisce la provenienza Bio.

Perché l’olio di Coco Nativo dovrebbe essere presente nelle vostre case?

Se scrivessi pari pari le caratteristiche riportate dal sito, potrei essere accusato d’essere di parte, per questo preferisco dare un informazione più ampia, inserendo diversi link neutri dalla rete italiana, in modo che possiate fare non solo un eventuale acquisto informato, ma consapevole di cos’è Olio di Cocco in generale  e, in questo caso, Olio di Cocco Bio Native, non indurito, non raffinato e non deodorato.

I possibili benefici dell’Olio di Cocco per la bellezza dei capelli;

I possibili benefici dell’Olio di Cocco per sbiancare i denti;

I possibili benefici dell’Olio di Cocco in cucina:

I possibili benefici dell’Olio di  Cocco per viso e corpo

I possibili benefici dell’Olio di Cocco contro la cellulite;

I possibili benefici dell’Olio di Cocco per i vostri Pet;

Come ultima cosa, non meno importante, sia per il consumatore privato, sia per eventualmente i gruppi d’acquisto: Il rapporto qualità/prezzo.

Facendo una lunga navigata in rete, durata ore e ore, ho potuto appurare che il prezzo del Olio di Cocco Nativo è il più concorrenziale, rispetto anche alla grammatura da 1000ml/920grammi, presenti attualmente sul mercato online.
Per ulteriori informazioni, contattatemi privatamente, via messaggeria, tramite la mia pagina Facebook.


© del testo di Marco Bazzato

lunedì 23 ottobre 2017

Pull a pig

Pull a pig, letteralmente tradotto dall’inglese, “Inganna il maiale”, ma visto che il “gioco” se di tal cosa si può parlare, andrebbe tradotto, volgendolo al femminile, con “Inganna la scrofa”.

Ormai è noto che questo non è certo un nuovo gioco, ma una semplice rivisitazione in chiave tecnologica delle scommesse che si facevano da ragazzi, da teenager, da adolescenti, e perché no, anche da adulti, quando tra amici, anche vincendo una certa forma di repulso, si scommetteva nel “farsi” non solo la più cessa della scuola, ma in quei casi, anche la più grassa, dicesi cicciona o altri aggettivi oggi considerati “fuori moda”, soprattutto nel mondo virtuale dei social network, soffocati dalla dittatura espressiva dei censori occulti, che ti bloccano l’accesso se provi, come si diceva in passato, “a farla fuori dal vaso”, detta in termini più attuali, se non usi un linguaggio non consono, dove il sessismo, anche in termini generali, risulta offensivo per la suscettibilità delle donne e/o femmine, le quali dovrebbero, sebbene siano in numero superiore rispetto ai maschi, essere trattate, in rete, come dei Panda e protette, come si adopera il WWF con le specie diversamente umanoidi, che popolano il pianeta Terra.

Il vecchio, ma presunto nuovo gioco, antico come il mondo, Pull a Pig sembra facile, ma la cosa va letta non solo in chiave femminile e/o femminista, ma dovrebbe anche andar letta dal punto di vista maschile.

In quanto, mettiamoci nei panni anche del ragazzo, il quale, come una prova di iniziazione per essere accettato dal gruppo, deve avere lo stomaco e il fegato di interagire in un modo o in un altro con una persona di sesso opposto, esteticamente attraente come un boiler e non è detto che l’impresa titanica vada sempre a buon fine, perché il maschio è “costretto” a mettere in atto, controvoglia, una serie di artifizi psicologici, innanzitutto verso se stesso, per vincere sia le sue resistenze interiori e poi quelle di lei. Dove spesso queste donne, avendo una bassa stima di se stesse, a causa dell’aspetto fisico, essendo forse più diffidenti di quelle fighe, di quelle ghocche che se la tirano, sono anche le più difficili da conquistare, in quanto prima di “mordere l’osso”, ci sta una quantità mostruosa di carne, di adipe, da superare e quindi a costoro, per assurdo, dovrebbe essere data una medaglia, non essendo affetti da una parafilia sessuale che va sotto il nome di “Adipofilia!”

Ma può essere anche vero l’esatto opposto, ossia, costoro, avendo una bassa autostima, cadono ai piedi del fighetto di turno che le annebbia con quattro complimenti dolci in croce, due sorrisetti, tre emoticon, come va tanto di moda oggi, un uscita per un caffè o una pizza e poi, come sovente da prassi, senza manco conoscere in profondità la persona, perse e fatte come i cachi, gliela danno, illudendosi d’aver trovato il grande amore della loro vita.
Grulle.

Attenzione però, il problema vero non è il Pull a Pig. 

Il problema vero è soprattutto l’attuale società contemporanea che, a differenza del passato, offre infinite possibilità in infinite combinazioni per avere delle interazioni sociali, dove però, a differenza del tempo che fu, visto che ormai molto passa attraverso il filtro della rete, non avendo fin da subito un contatto diretto con la persona, si costruiscono più castelli in aria di come si faceva nel passato, cadendo facili prede di soggetti che per un motivo o  per un altro, alla fine cercano , maschi e femmine, questo infoi mento generalizzato non fa distinzione di genere,  trovano sesso “low cost”,  perché anche il sesso stesso è un prodotto in che viene svenduto a prezzi di saldo di fine stagione, in quanto consumato non in modo diverso da come si consuma lo street food, il cibo di strada, chattando con la controparte, creandosi così un mondo di seghe mentali e amori illusori, frutto del mondo informatico, e poi queste illusioni, queste seghe mentali, come avviene da sempre, si trasferiscono in ogni caso nel mondo reale.


Il problema, lo si ribadisce, non è il Pull a Pig in se, quello fa parte della naturalità del genere umano, ma  va condannato è che questi disgraziati e mi riferisco ai maschi senza onore, invece di vantarsi come si faceva in passato con gli amici in piazza, al bar, raccontando i loro sforzi per raggiungere l’obbiettivo, vadano a pubblicare tutto ciò in rete o che si scambino commenti nei vari gruppi di discussione, dove purtroppo, il delatore o la delatrice, l’infame, l’infiltrato o l’infiltrata, come una pettegola dal parrucchiere, va a far uscire dal gruppo ristretto le conversazioni, creando l’immagine falsata di maschi mostri che  se ne approfittano di donne, maggiorenni, che, volendo passare per indifese, si professano vittime, a comunque affamate e saziatesi di carne maschile, esteticamente attraente, altrimenti si dubita che gliela avrebbero data, no?

È vero che vale sempre “l’arcaico” detto femminista de: “L’utero è mio e lo gestisco io”, nulla da eccepire su questo loro sacrosanto diritto di proprietà privata, donata da madre natura alle donne bio, ma va ricordato a queste donne che la danno via con estrema facilità, senza le necessarie accortezze,  poi il rischio che si corre, in primis è quello di essere etichettate come donne dai facili costumi, in quanto perché, piaccia o no, la nostra società è ancora, nel bene o nel male, intessuta da un forte maschilismo, ma se anche così non fosse, una donna che ha rispetto di se stessa, non va a darla al primo gonzo che passa, dopo qualche chattata sullo smarphone, arrabbiandosi poi se in un modo o in un altro, viene fottuta.

Rimarco una cosa però, riferita al genere maschile, genere del quale immodestamente sento d’appartenere: i maschi di oggi non hanno onore, non hanno dignità, non hanno rispetto, lasciamo stare per quella che ti sei portata a letto, brutta e grassa come la morte, nessuno ti ha puntato la pistola addosso e ti ha costretto a farlo. I maschi di oggi non hanno rispetto per se stessi: ti sei fatto la scopata? Bene. Hai aggiunto un’altra tacca incisa sull’uccello? Hai fatto bene. Ma almeno abbi l’onore di tacere e di non fartene vanto, soprattutto lasciando tracce nei messenger. Quindi, se devi reclamare, legittimamente, la tua vittoria: datti appuntamento al bar, davanti ad una birra, attorniato solo da amici fidati e racconta, se vuoi, le tue prodezze amatorie. Poi, se qualcun altro le mette in rete, orbene, ha tradito la tua fiducia  e questo, per dimostrare che si ha senso dell’onore, andrebbe escluso dal gruppo e bloccato nei social network, in quanto “bocca da puttana!”, come si diceva anni fa dalle mie parti.

Poi, visto che la scommessa con gli amici l’hai vinta, sarebbe da persone intelligenti uscirne con signorilità, scaricandola non spiattellandole in faccia la verità, ma raccontando le solite balle diplomatiche che si usano per scaricare una persona. Tanto il maschio, in quei casi lì, davanti a se stesso e davanti agli amici ha già vinto e non ha senso distruggere, umiliare e destrutturare la sconfitta, quella è già stata punita a sufficienza da madre natura, no?

Nota dell’autore: il rispetto va dato alle persone, sempre, soprattutto quando si è faccia a faccia, alle loro spalle, in privato, quando queste non ci sono, ci sta ancora per ora la libertà di dire ciò che si vuole e con il linguatggio che si vuole, indipendentemente dal sesso biologico di appartenenza, se non si vuole beccarsi come minimo uno sputo in faccia o una denuncia!

Foto dalla rete

Marco Bazzato
23.10.2017