mercoledì 29 ottobre 2014

Aborto e omosessualità, un binomio letterario nel romanzo “Aborto d’amore”



Aborto e omosessualità un binomio che fa paura a molti, specie se legato ai continui progressi della genetica prenatale. I coniugi Rampin sprofondano in un abisso emotivo e sociale quando scoprono che il loro figlio, a seguito di un esame genetico illegale, potrebbe avere il gene dell’omosessualità. Accettare la nuova vita che giunge, oppure prendere una decisione drastica, causata dalla pressione mediatica a cui sono stati involontariamente sottoposti.

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Buona lettura.

sabato 25 ottobre 2014

Iran, giustiziata Reyhaneh. Condannata a morte per aver ucciso l'uomo che tentò di stuprarla


Appena appresa la notizia, la rete è letteralmente è esplosa in contumelie contro l’Iran e la legge di quel Paese, in cui vige legittimamente la pena di morte. Pena di morte che del resto esiste in molti Paesi civilizzati, dagli Stati Uniti al Giappone.

Solo che se è l’Iran ad applicarla nel caso di un omicidio avvenuto per eccesso di legittima difesa, a seguito di un tentativo di tentato stupro, ecco che il mondo, ipocritamente, si indigna. 

Partiamo da un presupposto: la giovane aveva tutto il diritto/ dovere di ribellarsi contro colui che cercava di stuprarla, e si è difesa con le unghie e con i denti, arrivando come si sa a ucciderlo.

Il problema sta proprio qui:l’eccesso di legittima difesa, dove all’atto pratico la vita della donna non era in pericolo – raramente i violentatori uccidono le loro vittime – il loro imperativo è possederle, in quanto  la vittima del tentativo di stupro viene uccisa perché tenta di ribellarsi e colui che tenta lo stupro in preda ad un raptus,  la uccide. Un po’ ciò che è accaduto, si suppone, a parti invertite. Ossia Reyhaneh Jabbari, nella concitazione di difendersi – legittimamente – ha ucciso l’aggressore, passando dalla ragione, in quanto vittima, a quella del torto, come carnefice. È come carnefice è stata condannata.

I punti salienti sono altri: erano legittime le interferenze straniere di mezzo mondo contro il sistema giudiziario iraniano? No.  No perché la pena di morte, checché ne dicano i detrattori, ha la sua valenza e gli italiani, che sono un popolo di forcaioli a corrente alternata, basta leggersi cosa scrivono quando è menato o ucciso barbaramente un animale da affezione, in determinate situazioni: torture degne della Santa Inquisizione, come quelle inferte all’eretico di Giordano Bruno o i supplizi che avvenivano nel carcere iracheno di Abugraib, rendendo così, in via del teorica, un popolo, degno di andare a lavorare per qualche servizio segreto, in qualità di esperti in torture, sempre che dalle parole siano in grado di passare ai fatti e che non siano invece solo dei boccaloni, sono sempre pronti ad attaccare il carro, non dove sta la ragione, ma dove sta l’emozione.

Comunque la ragazza poteva avere salva la vita. Poteva salvarsi la vita, ma ha scelto di morire. Sì. Checché ne dicano i media, il sistema iracheno funziona meglio di ciò che si crede.  Alla donna era stata offerta, come viene offerto a tutti i condannati a morte per omicidio in Iran, la possibilità di aver salva la vita, come da legittima richiesta dei  parenti della vittima,  se avesse avuto il coraggio di fare come Galileo Galieli, ossia  abiurare, rinnegando ufficialmente la teoria Copernicana, a favore di quella eliocentrica – tolemaica –  entrando, tra le altre sue scoperte,  nella storia  con il suo mitico “Eppur si muove!”

La giovane avrebbe potuto “abiurare”. I famigliari della vittima erano disposti a perdonarla, imponendo una condizione, offrendole l’ancora di salvataggio, il salvagente e la cima, se avesse ritrattato il tentativo di stupro, ma ha rifiutato il “Do ut des”,  Sarebbe stata una ritrattazione convenite, in quanto non si sarebbe messa, con il suo rifiuto, da sola il cappio al collo, optando per fasi dare “l’eutanasia”.
Come per uno strano scherzo del destino, Reyhaneh Jabbari ha sbagliato mortalmente non una ma bensì due volte. La prima quando ha ucciso colui che tentava di violentarla, la seconda quando ha scelto di morire, vittima del proprio orgoglio. Orgoglio che non ha avuto lo scienziato Galileo Galieli, il quale, per dirla alla Montalbano, se ne è “catafottuto” e come recita una famosa pubblicità televisiva, andata in onda in Italia anni fa, ha scelto il mitico motto: “Io preferisco vivere!”

La cosa assurda è che adesso i media di mezzo mondo faranno passare l’Iran come Stato despota e tiranno, nemico delle donne e misogino, mentre i fatti, se analizzati nella loro interezza complessità, sono diversi.
Se la donna fosse stata intelligente, di morti invece di due, ce ne sarebbero stati uno solo, tanto tutto il mondo sapeva che era stata vittima di un tentato stupro, che se non si fosse attaccata al proprio orgoglio, sarebbe libera grazie un formalismo che le avrebbe resa salva la vita.
Reyhaneh Jabbari non ha saputo prendere il treno quando passava, non ha voluto come un cammello attraversare la cruna dell’ago –il formalismo della ritrattazione – e si è fatta dare la morte, “suicidandosi”, mettendo lei stessa la corda nelle mani del boia.

Come dice il proverbio: “Chi è causa del suo mal piaga se stesso”.

Marco Bazzato
25.10.2014

venerdì 24 ottobre 2014

«Aborto d’amore», recensione di Carlo Di Pietro *


      
            «Lacrime eugenetiche», romanzo firmato dall’attento autore italiano Marco Bazzato, attualmente residente in Bulgaria, racconta, a mio avviso, il dramma dell’essere disilluso dalla contemporaneità. Tragedia umana che adesso assume il volto del conflitto a sfondo sessuale, «mantra» dei media, talvolta con dipinte accentuazioni di farsa, che certamente nasce dalla «pneumatica contraddizione» insita nell’animo «alterato» dell’uomo moderno. Mi stupì, anni fa, il titolo alternativo, oggi divenuto quello definitivo, all’opera, «Aborto d’amore», sicché mi interrogai su come fosse possibile associare, certamente non manco di vena polemica, la parola «amore», massima espressione della vita, con la parola «aborto», che della morte indegna fa vanto.
            Nulla di più contraddittorio quindi, sicché anche l’assunto di partenza, utilizzato dall’amico Bazzato per estendere la sua narrazione - ovverosia gli articoli inerenti alla sussistenza del presunto «gene dell’omosessualità», poi seguiti dalle dichiarazioni rilasciate dal cantante, ex Wham,  George Michael nel  2007  - appare evidentemente «pretesto» di una certa «illogicità alla moda».
            La grottesca ma avvincente circostanza della famiglia Rampin - protagonisti sono il padre Francesco, la madre Arianna ed il figlio Mattia - è ambientata nel Veneto ed in parte nel Lazio, in un Comune del veneziano, ma a ridosso della provincia di Padova e a Roma. Il linguaggio e le espressioni gergali, scritte in italiano, sono per lo più tipiche della realtà identitaria veneta, spesso proposizioni attinte dal folklore locale.
            Arianna, donna riflessiva perciò combattuta, ha già avuto un primo figlio, Mattia, poi due gravidanze purtroppo interrottesi a causa di due aborti spontanei, ed ora, alla quarta attesa - ottima occasione per superare le normali problematiche coniugali (accentuate dal «passionalismo» dei soggetti coinvolti) - la donna decide di consultare la sua ginecologa per accertarsi sullo stato di salute del feto. Su consiglio della dottoressa «di fiducia», si rivolge pertanto ad un centro privato di Padova, non convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale, dove potrà fare anche degli accertamenti prenatali genetici più approfonditi.
            A questo punto, non prima, la mano dell’autore si tuffa totalmente nella conflittuale modernità - con tutte le sue conquiste, nel bene ma purtroppo anche nel male - quando, oltre alle rassicurazioni che il feto non soffre di malattie genetiche, i due coniugi, Francesco ed Arianna, ricevono la notizia che l’indifesa creatura, custodita in grembo dalla donna, porta il «gene dell’omosessualità», che, in base a  diversi fattori ambientali e sociali, potrebbe, una volta cresciuta, diventare omosessuale. 
            Marco Bazzato così facendo, dunque prendendo spunto da un assunto che può apparire anche «diversamente scientifico», descrive il dramma interiore della donna e dell’uomo, futuri genitori di un probabile «gay», ponendo l’accento sui rapporti interpersonali dei due soggetti con i loro amici, buoni o cattivi consiglieri, con la società, vilipesa nell’intelletto o meno, e finalmente con i media. Il caso diviene così, dapprima, d’interesse regionale e, successivamente, nazionale, prestandosi alle più spietate strumentalizzazioni, coinvolgendo anche il marito di una nota giornalista TV che, durante un servizio in loco, sembra manifestare privatamente particolari attenzioni per un uomo. È scandalo negli stessi ambienti dove non lo è. Quale risibile incoerenza!
            In un turbinio di «sentimenti» e nell’alternanza di vicende, fra rimorsi di coscienza e timori di essere etichettati come «omofobi», non già come probabili assassini, si accende così il dilemma dei protagonisti all’insegna del conflitto fra l’uso della retta ragione, che ha origine nella Natura e ad essa porta, e la visione «esasperatamente romantica», che il mondo vuol dare oggigiorno alla «diversa sessualità vissuta».
            Una serie di interrogativi turba fortemente i già fragili coniugi: tenere il bambino o ucciderlo, in ragione della sua presunta futura omosessualità? E cosa c’è di difficile nell’avere tendenze oggettivamente disordinate? E cosa di sbagliato c’è in un aborto? È forse peggio correggere un disordine (morale) o uccidere una creatura? Queste le principali domande, difficili da risolvere per chi è intellettualmente confuso. Ecco che l’autore riesce a cogliere acutamente, sebbene forse inconsciamente, la somma dei pensieri veramente turpi di quei soggetti (che appaiono, a tratti, anche in «buona fede»), che sono da una parte abbandonati nel discernimento, dall’altra totalmente soggiogati alle loro disordinate passioni, vittime dei «consiglieri della porta accanto», eppure la loro coscienza «borbotta».
            La triste vicenda, che poteva concludersi in un attimo, prosegue, come conviene al miglior dramma, fino all’esasperazione, con due lutti e addirittura con una scelta inaspettata del figlio Mattia e, lo si leggerà, con la conclusiva assurda decisione del signor Francesco.
            Di lettura piacevole ed appassionante, il testo deve per forza far riflettere su come l’uomo contemporaneo ami complicarsi l’esistenza vivendo di attenzioni per l’effimero - dalle facili critiche, alle inutili paure di risultare invisi ad un mondo logoro e corrotto - e di quanto possa essere abbandonato a se stesso, in un ambiente che ha fatto della morte e della sovversione un messaggio quasi normale, buono, sussistente al bene. Niente di più illogico e contraddittorio, come dimostrano la scienza e la storia!
            Se anche l’innocente creatura fosse stata «affetta» da questo presunto «gene dell’omosessualità», ed io non lo credo affatto, è forse la morte (ovvero l’aborto) la giusta soluzione? Perché pensare ad un gesto così disumano e condannato dalla storia, invece di capire che il giusto esempio coniugale e che il vero amore insegnato, correggendo il disordine, producono vita e bene in ogni dove? Ecco che l’intelletto, quando sposa la Causa Superiore del Bene metafisico - per me che sono cattolico: Dio - è in grado di portare l’uomo alla comprensione del vero senso della vita, realtà che si ottiene e si trasmette, ascoltando così il messaggio interiore della Legge Naturale che, di certo, non vuole né l’aborto né tantomeno la pansessualizzazione; tutti disordini indotti da fattori esterni e sovversivi, questi, che inequivocabilmente si presentano come un ostacolo allo sviluppo della società civile che intende a tal fine riprodursi, essere ordinata alla Natura e durare fin quando sarà necessario.
            Marco Bazzato coglie e dipinge esattamente le tante sfumature dell’illogica esistenza di chi vive - alla mercé del mondo - di contraddizioni. Questo ho percepito e tanto scrivo, comunque ignaro delle intenzioni dell’autore.


*Carlo Di Pietro, Giornalista e scrittore, autore di numerosi libri e saggi a sfondo religioso e teologico. La sua ultima pubblicazione è “Apologia del Papato”, ed Effedieffe, 2014, molti suoi articoli si trovano su  RadioSpada.

sabato 11 ottobre 2014

Incipit di “Aborto d’amore” romanzo e-book



Capitolo I

   “Ancora queste maledette nausee…” imprecò con la mente la donna.
   Succedeva così da quasi una settimana “Devo prendere appuntamento dal medico…” continuò a riflettere, mentre sceglieva cosa indossare per uscire.
   Ogni giorno la stessa storia. Il marito si alzava a orari impossibili in quanto faceva i turni in una fabbrica di calzature che produceva a ciclo continuo, rincasava esausto, si accomodava sulla poltrona, e fingendo di guardare la tv, cambiava i canali con l’indice premuto sul telecomando, dandole sui nervi.
   Finalmente si era decisa: avrebbe indossato la camicetta gialla abbinata ad un paio di jeans neri, e ai piedi le immancabili scarpe da tennis. Se solo fosse stata qualche centimetro meno alta avrebbe portato i tacchi, ma il marito era due centimetri più basso di lei, e quando li indossava, non faceva che lamentarsi che si sentiva un pigmeo al suo confronto. Ma non aveva tempo per pensare a discorsi idioti, aveva l’appuntamento con la parrucchiera. Diede un ultimo sguardo al trucco, e aggiunse altre gocce di profumo dietro i lobi delle orecchie. «Sono pronta!» si disse ammirandosi allo specchio.
    Aveva una bella figura, era alta un metro e settanta centimetri, portava una terza abbondante di seno, e le tette, ancora non mostravano segni di stirature o abbassamenti, e, nonostante la gelosia del marito, sfoderava spesso un decolté di tutto rispetto. Aveva da poco compiuto trentacinque anni, e le sembrava ieri quando aveva detto “Sì” a Francesco davanti al sacerdote del paese ubicato ai confini tra Padova e Venezia. A volte si interrogava se aveva scelto giusto per se, e per il suo futuro. Ma piangere lacrime sul passato, era un esercizio abbandonato da tempo, perché le costavano delle interminabili emicranie e un numero infinito di kleenex.
   «Francesco, io esco…arrivo verso le sette per prepararti la cena» strillò la donna.
   «Va bene, fa che cazzo vuoi. Tanto lo fai sempre!» imprecò senza alzare lo sguardo dalla tv.
  Arianna Marini in Rampin uscì dall’appartamento, chiuse la porta, e si appoggiò con le spalle rivolte al muro traendo un sospiro di sollievo.
   «Finalmente fuori da quella prigione» si disse sottovoce, ripensando al marito che fissava bestemmiando inebetito lo schermo tv.
   Dove erano andati a finire i sogni sul principe azzurro? Se mai c’erano stati, quel bastardo a cavallo aveva scelto un’altra principessa, e lei si era dovuta accontentare di un mozzo di stalla, che passava le giornate a montare scarpe in mezzo a neri, cinesi, cingalesi, arabi e marocchini, lasciandosi sottomettere dal caporeparto, che non vedeva l’ora di far volare nella fabbrica qualche scarpa mal fatta, colpendo il disgraziato di turno, e guarda caso, spesso beccava Francesco, che di attenzione e precisione, a volte non voleva sentirne parlare.
   Scese velocemente le scale, l’esercizio faceva bene al fisico e rassodava i glutei. Non voleva trovarsi a quarant’anni come le sue amiche, che erano un ammasso informe di brufoli adolescenziali, e cellulite dovute alla mancanza di esercizio, e a una dieta fatta di cioccolatini, frappé, gelati e hamburger, ingurgitati in scala industriale.
   La fresca aria pomeridiana le accarezzava i capelli che scendevano liberi fino a quasi le natiche. In effetti sapeva che la cascata nera, unita agli strani occhi azzurri e ai seni che fissavano davanti a se, con la durezza di un sergente maggiore, facevano girare la testa ai maschi. Ma lei, nonostante la rabbia che nutriva nei confronti del marito, non riusciva a tradirlo.
   Tante volte durante le serate del venerdì sera con le vecchie compagne del liceo, era stata accusata perché non aveva la forza d’essere vacca come la maggior parte di loro. Spesso gli attacchi partivano da Vanessa, la sua ex compagna di banco, che annoverava, tra tutte, un nutrito carnet di amanti veri o inventati, ma non riusciva a essere come lei. Le regole religiose inculcatele fin da bambina, avevano costruito un muro di pudore e sensi di colpa che non riusciva a scrollarsi. Vanessa invece, da quando la conosceva era sempre stata piena i grilli per la testa. Da sempre in prima fila alle manifestazioni studentesche, pronta a sventolare la bandiera di Che Guevara, Comunista, o Anarchica, a seconda dall’umore del momento, in difesa di qualsiasi cappellone drogato, o finocchio che reclamava parità dei diritti sociali davanti alla legge bigotta e genuflessa alle gerarchie Vaticane dello Stato Italiano. Negli ultimi anni si era unita ai gruppi radicali che predicavano l’aborto libero, la pillola del giorno dopo, unioni Gay, i Di.Co, cadendo come una preda nella sua foga da affabulatrice politica, portando a tracolla la sgualcita sacca da perenne studentessa fuoricorso di Filosofia all’Università di Padova.
  Scese nel garage, prese lo scooter, attenta a non ammaccare l’Alfa 146, comperata a rate dal marito. Si maledisse l’ennesima volta per aver acconsentito all’acquisto, avallando il finanziamento presso la concessionaria il giorno della firma del contratto. Mise il casco in testa, e avviò il piccolo mezzo a due ruote.
   Lina, la vecchia parrucchiera aveva il negozio a un chilometro dal suo appartamento, e Arianna non vedeva l’ora di accomodarsi sulla poltrona e sfogliare le riviste di moda e pettegolezzi per sapere vita morte e miracoli dei Vip della Costa Smeralda, e altre amenità, sperando che quelle letture non compromettessero oltre il necessario la sanità mentale.
  Varcò la soglia, e trovò la solita fila di vecchiotte ultra settantenni sedute, che desideravano mostrarsi come adolescenti infatuate e rivoluzionate dai presunti ormoni della crescita, che nel loro caso, erano ormoni della gotta e della senilità galoppante. Le conosceva quasi tutte. Alcune erano le madri delle sue amiche, che da quando, erano rimaste vedove, si erano abbonate a ogni genere di divertimento, diventando esperte nell’arte amatoria verso aitanti giovani, e con la loro esperienza facevano da mamme, nonne e navi scuola sessuale.


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giovedì 9 ottobre 2014

Aborto d’amore – romanzo e-book





Gentili lettori,
È con immensa gioia che Vi comunico l’uscita del romanzo “Aborto d’amore”, avente come sottotitolo “lacrime eugenetiche”.

Questo romanzo ha avuto una gestazione lunghissima. Sebbene la scrittura sia iniziata nel 2006, la stesura definitiva è dell’anno scorso, il 2013. Ho scelto la versione e-book,  pubblicando con la piattaforma di lulu.com perché alla fine ho creduto che il romanzo meritasse di uscire, anche in virtù del particolare momento storico che stiamo vivendo, almeno osservando l’Italia da una posizione privilegiata, dove il Paese e la politica italiana, in gran parte, a torto o a ragione, si è schierata a favore o contro la proposta di legge contro l’omofobia, con in prima linea, per il mantenimento dell’attuale legalità e status quo, le Sentinelle in piedi, come se questi presunti problemi, nonostante il rischio Ebola, immigrazione incontrollata e una crisi economica che scaraventato lo stivale in una depressione economica, in quanto l’attuale quadro politico va avanti spedito a proclami e slogan di facciata, non avesse altro a cui pensare.
“Aborto d’amore” è un romanzo che potrebbe accendere molti animi, ma sta a voi, miei fedeli lettori, dare fuoco alla polveri. Sì, perché l’opera letteraria tratta un tema apparentemente digerito dall’opinione pubblica italiana: l’aborto. Ma quando questo si mescola, all’interno di un romanzo, con l’indagine prenatale e il presunto gene dell’omosessualità, a lungo dibattuto tra gli scienziati e di cui non è ancora stata confermata la scoperta ufficiale, in prestigiose pubblicazioni scientifiche, ecco che la fantasia romanzata può offrire diversi scenari ipotetici.

Naturalmente non è compito del romanziere dare giudizi scientifici, etici, morali, legali, all’interno di un opera di fantasia. Il compito del romanziere, a mio avviso è di creare realtà parallele, mondi o futuri alternativi, ove poi, al termine, il lettore potrà, se vorrà, scegliere con chi schierarsi.

“Aborto d’amore” è ambientato in un paese mai citato della profonda provincia veneziana, che si trova, come se ci fosse un inesistente Muro di Berlino, diviso dalla linea continua di una strada provinciale, dalla provincia di Padova.  Narra delle vicende della famiglia Rampin e l’abisso emotivo nel quale è sprofonda a seguito di un esame genetico prenatale, illegale, che ha diagnosticato la presenza nel feto del gene dell’omosessualità. Le certezze di Arianna e Francesco collassano, avvolgendo tutti i protagonisti, principali e secondari, in un turbinio senza fine di situazioni personali e sociali che sconvolgeranno le loro vite e le presunte certezze che credevano acquisite, salde e costruite sopra la roccia, dove alla fine nessun personaggio è come appare e nessuna sicurezza e così certa da essere incrollabile e assoluta.

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Marco Bazzato
09.10.2014