sabato 27 gennaio 2007

Shoah: Memoria violentata

Mattia era tornato a casa felice, finalmente sarebbe andato in gita scolastica. Ancora una settimana d’attesa e il grande giorno sarebbe arrivato. C’era però uno scoglio da superare: l’autorizzazione dei genitori.
«Mamma» disse il bambino dopo che ebbe terminato i compiti «C’è la gita scolastica tra una settimana, e mi dovete firmare l’autorizzazione».
La donna prese il foglio che li veniva posto da figlio, e dopo una rapida letta rispose «Mi dispiace Mattia, ma tu non andrai in gita scolastica alla Risiera di San Sabba»
«Perché?» quasi piagnucolò il piccolo pensando alla giornata di festa che avrebbe potuto fare con i compagni di scuola.
«Perché è un posto pieno di cose brutte, perché ti faranno vedere cose che alla tua età non dovresti né vedere, né sentire, e nemmeno conoscere».
Il bambino capì a cosa alludeva la madre, ma non era colpa sua se la gita faceva parte del programma scolastico sullo studio della seconda guerra mondiale. «Ma mamma, sono tre settimane che a scuola la maestra ci parla di questa gita e sull’importanza storica della Risiera».
«Ne ho già parlato con tuo padre, e lui è d’accordo con me. Non andrai in quel posto mostruoso».
Mattia squadrò la madre, e le chiese «Tu ci sei stata, vero?»
«Si, e anche tuo padre, per questo non vogliamo che tu ci vada. Sia io sia lui, sappiamo bene come certe immagini non si cancellino dalla mente, specie nei bambini della tua età. Avevamo anche noi dieci anni quando abbiamo fatto la stessa gita scolastica. Io ho avuto gli incubi per quasi un mese, non riuscivo a togliermi dalla testa quell’orrore» rispose la donna, ricordando le notti che si era svegliata urlando, madida di sudore e sua madre che accorreva prima preoccupata e poi arrabbiata con se stessa e con la maestra per quel viaggio maledetto dentro l’incubo.
Mattia tacque. Sapeva che non poteva averla vinta, e si ritirò nella sua cameretta a giocare con il computer.

La gita era fu un successo, tutti gli scolari tornarono a scuola il giorno seguente con addosso i brividi per quel viaggio, per quella giornata di svago fuori dalle grigie mura della scuola. L’unico che non poteva gioire era Mattia. Ascoltava i commenti dei compagni in silenzio e in disparte. Per colpa della madre si sentiva escluso,pensava tra se, faticando a nascondere l’amarezza.
«Seduti, bambini!» ordinò la vecchia zitella, fissando da dietro le spesse lenti da miope. «Oggi farete un tema sulla gita scolastica, voglio che descriviate le vostre emozioni, e cosa vi è rimasto più impresso nella mente di quello che avete visto» gracidò.
Mattia alzò timidamente la mano, cercando d’attirare l’attenzione dell’insegnante. «… Io cosa faccio?» chiese timidamente il bambino.
La maestra mise a fuoco con difficoltà quel piccolo viso, poi appena capì chi aveva parlato, con un moto di disgusto urlò «Tu…., piccolo antisemita ti prendi un insufficienza». Mattia voleva sparire sotto il banco. Sentiva le guance arrossate per la vergogna per le terribili parole dette dalla maestra.
«Portami il quaderno, voglio scrivere ai tuoi genitori. Devono sapere che non possono comportarsi così. Non hanno avuto rispetto né per i morti della Shoah e nemmeno per la scuola. Muoviti, dammi il quaderno, non ho tutta la giornata da perdere» gli intimò allungando il braccio sopra la cattedra. Mattia si alzò dal banco, consegnò il quaderno e poi dopo che la maestra ebbe scritto, tornò al suo posto scoppiando a piangere.

Al ritorno a casa Mattia gettò sul tavolo della cucina il quaderno. La madre, lo prese e lo sfogliò arrivando rapidamente all’ultima pagina, dove con la penna rossa era vergata con caratteri rabbiosi la nota dell’insegnante. La lesse e chiuse il quaderno con rabbia. “Domani mi sentirà, eccome se mi sentirà!”si disse a se stessa.
Mattia il giorno seguente fu accompagnato a scuola dalla madre. La donna aveva chiesto un giorno di permesso dal lavoro per sistemare la faccenda del figlio. Accompagnò il bambino in classe e attese l’arrivo della strega.
L’insegnante appena la vide raddrizzò la schiena cercando di darsi contegno. La madre di Mattia si parò davanti alla maestra mostrando il quaderno del figlio. «Cosa significa tutto questo?» domandò cercando di controllare il tono della voce.
«Significa che suo figlio è educato da lei a sentimenti antisemiti. Negandole il permesso alla gita, ha voluto insegnare a suo figlio la negazione degli orrori dell’Olocausto» rispose l’arpia, felice dell’affermazione.
«Voglio parlare con la direttrice e lo psicologo scolastico. Io ho il diritto di proteggere mio figlio da insegnamenti che considero destrutturanti per la sua psiche. E quello di portare dei minori a visitare Campi di Concentramento, farli vedere cadaveri bruciati e corpi scheletrici è pura violenza psicologica nei loro confronti. È come se assistessero in diretta ad uno stupro o venissero violentati.
«Ma cosa sta dicendo…»
«Senta signora, a me non risulta che lei abbia figli, quindi non può capire quello che subiscono davanti a tutto questo. Se fosse madre, credo che potrebbe capire, ma visto che non lo è, lei non ha nessun diritto nel venirmi a dire quello che è giusto o sbagliato per mio figlio».
La maestra fece un sorriso sinistro, squadrò la donna come se fosse un insetto ignorante da schiacciare con la sua vecchia scarpa. «Faccio l’insegnante da ventanni» iniziò, «e non permetto a nessuno che venga a mettere in dubbio quello che sono i miei metodi educativi, per di più io seguo le regole del Ministero della Pubblica Istruzione» disse facendo una pausa per riprendere fiato, e proseguì «Suo figlio ha fatto un assenza ingiustificata, e come educatrice lo ritengo un affronto anche al mio lavoro e alla mia professionalità, oltre che alla memoria storica e al dovere che abbiamo di tramandarla».
La mamma di Mattia sospirò. Aveva capito fin da subito d’essere davanti ad una mera esecutrice, ad una persona che ligia alle regole imposte che non si sarebbe spostata di un centimetro dalle posizioni ufficiali, nascondendosi come faceva con le lenti spesse degli occhiali, dietro di esse. «La cosa non finisce qui. Forse ci rivedremo in tribunale. Citerò per danni lei e la scuola, e questa nota è la prova dell’accanimento ideologico nei confronti di mio figlio, e della mia libertà di madre di scegliere quello che è meglio per lui».
«Faccia pure, signora, faccia pure, ma dubito che nessun giudice le darà ragione. Lei non capisce che si sta mettendo contro la storia e la politica, e nessun dipendente dello Stato sano di mente che tiene alla sua carriera condannerà né me, né la scuola perché ha fatto il suo dovere».
«Vedremo» rispose la madre di Mattia, e senza salutare l’insegnante, si voltò e si diresse verso l’uscita del plesso scolastico.

Erano passati tre mesi dal giorno dello scontro, e Anna con il sostegno del marito aveva contattato altri genitori degli alunni che si erano recati alla gita scolastica alla Risiera di San Sabba. Sulle prime furono restii a parlare, ma poi alcuni si erano accorti dei comportamenti strani dei figli, dei loro incubi notturni, in qualche bambino si erano manifestati casi d’enuresi notturna che avevano fatto preoccupare i genitori.
Quattro coppie avevano portato i loro figli dallo psicologo infantile, dove i bambini avevano disegnato su fogli i loro incubi, le immagini che vedevano nella mente e quelle figure urlanti avvolte dalle fiamme che piangevano per il dolore.
Gli psicologi cercarono di ignorare i segnali che i piccoli pazienti inviavano tramite i loro disegni, ma non poterono mantenere a lungo le loro posizioni, era chiaro che i piccoli soffrivano della Sindrome di Stress Post Traumatico, dovute a quanto avevano visto durante la gita scolastica, in quanto erano stati esclusi altri fattori destabilizzanti all’interno della vita quotidiana dei bambini.

«Abbiamo le diagnosi» disse uno dei genitori rimasti. In tanti si erano ritirati dal gruppo, spinti dalle pressioni subite, anche se sottovoce e solo a se stessi ammettevano che gli scompensi emotivi dei figli, nonostante fossero passati mesi dalla gita scolastica, non erano del tutto spariti, ogni tanto si riaffacciavano.
Che facciamo ora?» domandò uno dei genitori.
«Andiamo avanti» fu la secca risposta di Anna, «le diagnosi parlano chiaro, voglio vedere fino a che punto la politica si disinteressa dei problemi e dei traumi che queste visite didattiche creano nei bambini» concluse, iniziando però a sentire che il coraggio le stava venendo meno.

Arrivò il giorno dell’udienza preliminare, la coppia era spaventata ed intimorita per l’enorme pressione mediatica che si era creata attorno alla vicenda. I maggiori quotidiani nazionali avevano scritto lunghissimi corsivi per stigmatizzare il comportamento dei due genitori, alcuni si erano spinti a scrivere che probabilmente i genitori che avevano intentato la causa rischiavano di veder allontanati i figli dalle famiglie, perdendo addirittura la patria e potestà.
«La cosa c’è sfuggita di mano» disse il marito ad Anna.
«Hai ragione» rispose lei sottovoce, mentre una miriade di flash e microfoni danzavano a pochi centimetri dai loro volti. «Io però non voglio arrendermi, ma non voglio nemmeno che rischiamo di perdere nostro figlio, viste le premesse sfavorevoli. Sai, credendo di fargli del bene, mi sto rendendo conto che sta soffrendo, forse più di quanto avrebbe sofferto in quella maledetta gita scolastica».
«Già, e troveranno il modo di addossare a noi la colpa di quello che abbiamo fatto nell’intento di proteggerlo» rispose il marito stringendole la mano, cercando di superare la selva dei giornalisti che sembravano spuntati come cavallette.
«Siamo in una situazione senza via d’uscita. Questa è la vittoria della politica sul diritto del fanciullo» concluse la donna, incamminandosi verso l’aula del tribunale, e cercando di trattenere le lacrime, si mossero verso il loro destino.

Il processo giunse al termine dopo quasi un anno, e i genitori di Mattia erano spaventanti per la lettura del verdetto.
Il giudice fece il suo ingresso nell’aula, squadrò il pubblico presente, si sistemò gli occhiali che impertinenti cadevano spesso sulla punta del naso e iniziò a leggere. La lettura durò quasi un’ora. I genitori furono condannati ad un anno di reclusione con i benefici di legge, con la motivazione che si erano opposti ai programmi didattici della scuola, dello Stato, privando il figlio del diritto all’istruzione, negandogli la conoscenza della storia, generata dalla negazione dei genitori dei crimini e contro la memoria della Shoah.
La sentenza stabilì che le diagnosi degli psicologi non erano da ritenersi dovute alla visita stessa, ma dall’orrore che i giovani avevano avuto dalla presa di coscienza di quella realtà tragica che fu l’Olocausto, e il fatto che si fossero impresse così profondamente nella mente dei bambini doveva essere letto, non come una Sindrome Post Traumatica, ma come il giusto effetto che l’orrore deve suscitare davanti alle atrocità commesse dal nazismo, e tutti i bambini hanno il dovere di vedersi incidere nella coscienza quell’orrore disumano, perché esso va oltre al dolore stesso, e le eventuali conseguenze, impossibili da provare, nei piccoli sarebbero comunque da ritenersi irrilevanti rispetto al male assoluto.

N.d.a: questa è un opera di fantasia, qualsiasi riferimento a fatti reali è puramente casuale.

Marco Bazzato
27.01.2007
http://marco-bazzato.blogspot.com/