Ma piangere sul latte versato, anzi sugli errori, ai rigori, sbagliati, non serve certamente a nulla. Il punto semmai è un altro: da dove si ricomincia?
Alcune voci, di corridoio, parlano già quasi apertamente di un ritorno di Lippi sulla panchina azzurra, resta da vedere se il Ct, campione del mondo in carica, abbia effettivamente la voglia di riprendere in mano un gruppo sbandato e demotivato.
Quello che fa sorridere oggi, è la solita retorica italiana della vigilia. Pronostici, proclami, statistiche, come se le parole dei giorni precedenti, spesso altisonanti, avessero avuto il potere esorcistico di mutare poi la triste realtà dei fatti. C’è un detto che dice: Non dire gatto, finchè non l’hai nel sacco. Evidentemente la boria italiana, pessima maestra d’umiltà, ha caricato troppo, non solo gli italiani d’aspettative, ma pure la squadra stessa, che poi ha ricambiato quello che ha ricambiato: una sconfitta.
Dire se quest’eliminazione oggi e in futuro, sarà un bene o un male spetta agli esperti. Certo è che il calcio italiano, e la nazionale, così com’è, appare sempre più un’armata Brancaleone allo sbaraglio, priva di precisi obiettivi, con i giocatori, che forse sono stati eccessivamente sopravvalutati, soprattutto i campioni del mondo in carica, e nuovi arrivati, mancano di quell’esperienza e coraggio nel saper sopportare lo stress di un palco internazionale.
È chiaro che non il capro espiatorio, ma il responsabile diretto di questa Caporetto è il Commissario Tecnico, di cui non sempre la grandezza come giocatore, appese poi le scarpette al chiodo, equivale a carisma e a visione strategico-tattica dei giocatori, da allenatore.
La scelta di Donandoni, a molti fin dall’inizio è sembrata infelice, una decisione presa sull’onda emotiva dell’abbandono di Lippi, si è rivelata una jattura nei confronti, prima della squadra, poi dell’Italia intera, che è uscita con la coda tra le gambe e a testa bassa.
Il nuovo che verrà, perché sicuramente, dovrà esserci, si porterà il fardello del fallimento del predecessore, e il peso di dover riconsiderare ogni elemento, senza far sconti al passato ha dimostrato di non aver condizionato in positivo, il rendimento dei quarti di finale.
Interessanti tra l’altro, sono i mesti commenti del giorno dopo, i volti scuri, le dichiarazioni di chi, invocando la sfortuna, non vuole prendere coscienza del – giusto – fallimento, su tutta la linea del Carrozzone Italia.
C’era poco da esultare e pavoneggiarsi come tacchini alla vigilia, come ci sono ancora meno scuse da fare per giustificare un naufragio titanico, di proporzioni bibliche, e si spera, serva in futuro, per imparare a fare un bagno d’umiltà.
Invocare la sfortuna, la malasorte, i gesti scaramantici – che non servono una mazza – per cercare di lavarsi di dosso l’onta di una sconfitta, appare ancor di più oggi come un pianto da Coccodrilli, una danza del Cigno – morto – che a differenza della fenice, oggi non può rinascere dalle proprie ceneri.
Ma il punto non è né la sfortuna, né tantomeno il fatto che gli spagnoli hanno giocato meglio degli italiani, ma che gli azzurri, hanno fatto il possibile per essere peggio degli spagnoli, riuscendoci, mostrando la corda di una squadra, che ai molti era apparsa scollata e mal assortita fin dall’inizio.
Donadoni ha dichiarato che non intende dimettersi, da italica abitudine, di non avere l’umiltà di saper riconoscere i propri fallimenti, proseguendo, come la politica insegna, che è giusto aiutare ancor di più la barca ad affondare, dimostrando palesemente di non saper o non voler riconoscere i propri disastri.
Va detto che l’Italia, con quest’allenatore e questo gruppo, non meritava d’andare più avanti di così, anzi a ben guardare, la nazionale avrebbe meritato d’essere mandata fuori già agli ottavi di finale.
Si spera, ma è una speranza già morta in partenza, che questa sonora sconfitta serva da lezione, non solo al futuro allenatore che verrà, ma anche ai nuovi che giungeranno, e agli opinionisti sportivi e non, che questa sonora sconfitta, serva per fare un bagno nell’aceto dell’umiltà. Umiltà che spesso il Paese allegramente deficita, perché malato di superbia congenita, che non permette d’andare oltre ai proclami di facciata, alle statistiche, come se queste fossero l’oracolo infallibile di Delfi, ma poi, come il campo ha ineluttabilmente dimostrato, è una vacua superstizione arcaica, che sortisce lo stesso effetto divinatorio di maghi e cartomanti: fallimento su tutta la linea, e a casa col capo chino e gli occhi che fissano la punta dei demotivati piedi miliardari.
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