La donna, nei primi quattro mesi di gravidanza, era intenzionata a tenere il figlio, ma poi facendo e rifacendo i conti con Ivano si sono resi conto per loro una nuova bocca da sfamare, sarebbe stato un impegno finanziario troppo gravoso, nonostante la voglia di lei d’avere un altro figlio.
Di comune accordo, sentito anche lo psicologo indicato dal consultorio familiare, ricevette il tanto agognato certificato, che dichiarava il suo stato di stress psicologico che le rendeva impossibile proseguire serenamente la gravidanza, senza rischiare di compromettersi l’equilibrio psicologico.
Giunse così il giorno dell’aborto. La donna dopo esser stata preparata per l’anestesia locale, attese l’arrivo del medico. Era agitata, tesa, aveva paura e non voleva pensare a quello che stava facendo, ma sapeva che non aveva altra scelta, se voleva continuare a dare un futuro dignitoso, non ricco, a proprio figlio.
Chiuse gli occhi. Sentiva le fredde mani del dottore che preparava i ferri del mestiere. Tra poco le sarebbe stato strappato via il frutto dell’amore che custodiva gelosamente in grembo, ma che non poteva far continuare a vivere.
Sapeva che quella creatura era viva, era una parte di lei e che dal suo corpo traeva nutrimento, ma non poteva lasciarla crescere oltre. Ogni giorno che passava, sebbene sapesse che era suo figlio, lo sentiva come un escrescenza destabilizzante, un grumo di carne-persona in stato avanzato di formazione uterina, che doveva essere fermato, arrestato, reso inerte.
Anche il marito lo sentiva come un nuovo virus famigliare infettivo, un’escrescenza cancerogena che cresceva nel ventre della moglie, una pustola uterina che rischiava di raggiungere dimensioni abnormi, una malattia pensante, dotata di gambe, braccia, testa e corpo, un polipo annidato, che come una sanguisuga senza pietà avrebbe dilapidato in pochi mesi, i loro miseri averi.
Doveva essere abortito, ucciso, sterminato, reso clinicamente morto, aspirato e smembrato. Spesso sognava, come negli incubi neri che lo assalivano alle prime luci dell’alba, di vederlo questo piccolo assassina famiglie, guardarlo negli occhi ancora in formazione, mentre agonizzava, mentre quel tenero feto, o corpo ancora molle, cercava di prendere aria in un mondo che non doveva né conoscere né vedere. Sorridendo, si avvicinò alla moglie, che stava attendendo che l’escrescenza nel grembo uscisse come in un parto naturale, ma indotto dai farmaci.
Erano passate ore da quando il parto indotto aveva avuto inizio. Gianna era sotto morfina, lui no. Lui era sotto adrenalina, come un pupazzo caricato a molla, sul punto d’esplodere, implodere o colassare ad ogni istante. Teso come una corda di violino. Sentiva i lamenti della moglie, i dolori per le contrazioni che, come una marea impazzita, andavano e venivano, portandosi con se i detriti di una coscienza intorpidita e talvolta assente.
In certi attimi, la moglie pregava, in altri malediceva e bestemmiava, come una madonna indemoniata, un Eva assassina, che dalle urla d’un dolore scomposto, cercava un impossibile conforto.
La mano di Ivano stringeva quella di Gianna, entrambi avevano le fronti imperlate di sudore. Lui, avrebbe venduto il rene del figlio per potersi fumare un cannone di Maria, ma non c’era il tempo per fantastici sogni miserevoli. Non c’era tempo per perdersi in fantasiose ossessioni meschine, non c’era voglia d’abbandonarsi a gustose prelibatezze mentali, a succulenti piatti intrisi del sangue dei propri figli.
S’imposero di rilassarsi. Sapevano entrambi che sragionavano, che la mente si comportava come un Lee Harvey Oswald impazzito, come un Mohamed Alì Agca, vile attentatore fallito. Con uno sguardo s’imposero di calmarsi, con una stretta e un sorriso si costrinsero ad abbandonare i facili sogni, le fuggitive fantasie mentali, per tornare in un mondo reale, per tornare nel mondo mortale, assaporando – astrattamente – quell’aroma ferorroso del sangue, uscente dal ventre della sua sposa.
Gianna ad un tratto sentì che l’escrescenza stava arrivando, che il mostruoso demone uterino accucciato nel grembo, stava per percorrere, impaurito, quasi morente, la caverna nel ventre. Sorrideva, piangeva, singhiozzava e urlava. Erano grida sconnesse. Erano come le grida d’una bambina che attende la morte, le grida d’una donna infante che sta sgozzando l’agnello. Grida che come un eco, rimbombavano nella mente d’entrambi, rimbombavano d’un dolore assordante, accecante, agonizzante e morente. Un dolore primordiale e primitivo di una vita che sente d’essere strappata via dal mondo, d’una vita che sente scorrergli addosso gi ultimi istanti, percependo le lami del boia che gli strapperà gli arti.
Era uscito, dopo l’ultimo primitivo grido animale, con un suono sordo il feto, il quasi bambino, fu preso dal medico e gettato nella bacinella d’acciaio, mentre il sangue usciva copioso dalle intimità dilatate della donna, che esausta cercava – forse – un Eterno Riposo.
«Che ne facciamo?» chiese il medico all’improvviso. «Il feto è ancora vivo! C’è poco tempo per decidere», terminò abbassandosi la mascherina dal volto, mostrando un viso professionalmente e sadicamente impassibile.
Gianna e Ivano si guardarono spaventati. Senza dire una parola si capirono. Volevano vedere l’escrescenza, il mostro, il demone che s’annidava nel ventre che li avrebbe ridotti come barboni puzzolenti a chiedere pranzo e cena alla mensa dei poveri.
Il dottore, scafato a simili reazioni, annuì e sorrise. Era un sorriso di trionfo, un sorriso di vittoria della morte sulla vita, era il sorriso nero d’una divinità istituzionale votata alla distruzione dei corpi non nati.
Prese il piccolo contenitore d’alluminio e lo portò quasi all’altezza del volto della donna. Ivano con gli occhi lucidi osservava ogni movimento del medico. Era affascinato, rapito ed estasiato dalla grazia omicida che si sprigionava dall’uomo. Entrambi, come due bambini che stavano per decapitare una rana o prendere a calci e sassate un cane randagio sorridevano.
Gianna in quell’attimo aveva la sensazione d’amarli entrambi. Il marito, perché era il suo sposo, mentre i medico perché era il carnefice dei suoi sogni, l’angelo sterminatore, l’uccisore dei suoi incubi, il sacerdote, il messia nero, il traghettatore della morte nel mondo dei vivi. Sentiva che avrebbe in quell’attimo concedersi a lui, donandole le intimità dilatate e sanguinanti, quasi emorragiche, avrebbe venduto il cuore del figlio, pur di farsi prendere, possedere e cavalcare come un puledra imbizzarrita e selvaggia da quel vecchio Mefistofele, che l’aveva aiutata ad uccidere il futuro.
I due guardarono rapiti il piccolo feto di quasi sei mesi. Vedevano quel non corpicino, quell’essere legalmente non nato, che cercava di respirare. Era ancora ricoperto di sangue, e il cordone ombelicale era stato reciso senza ritegno.
Puzzava. Puzzava come un animale ricoperto di una placenta cancerogena. Era un odore di sangue andato a male, il tanfo di una creatura che non sapeva d’essere viva o morta, aggrappata ad una vita che non doveva vivere, attirata verso una morte che non voleva accettare.
«Il feto è sano, signori. Che ne facciamo? Lo rianimiamo oppure no?», domandò improvvisamente il dottore distogliendoli da quello spettacolo macabro e moribondo.
Un ultimo gesto d’intesa poi un sospiro reciproco, un sospiro non dissimile di quello d’una vita che si spegne e muore, un sospiro che racchiude milioni di respiri, eterno, senza fine, oscuro e senza ritorno, poi la donna parlò per entrambi.
«Lo lasci morire, dottore, questo non è un essere umano, non è una persona, è solo un grumo di carne privo di pensieri e umani dolori veri!»
Il dottore annuì, cercando di nascondere sotto la mascherina rialzata sul volto, un sorriso d’approvazione.
Il feto tentò altri pochi minuti d’avere una respirazione autonoma, poi, l’illegale corpo umano, la persona non nata cessò di respirare per sempre, divenendo puzzolente carne inerte.
Marito e moglie avevano gli occhi lucidi per la felicità. Il dissesto economico era stato scongiurato. Ivano guardò l’orologio, tra meno di due ore avrebbe ripreso servizio nella catena di montaggio. Doveva andare. Baciò sulla fonte la moglie, che le sorrise. Era un sorriso d’amore, il sorriso d’una ricchezza ritrovata, il sorriso di una donna amante, amata, che sapeva amare la vita, la famiglia, il figlio. Era il sorriso di una donna che ha salvato una vita che le cresceva in grembo, uccidendola, e di questo ne andava orgogliosamente fiera.
«Vai amore, ci vediamo domani. Io chiamo un taxi e torno a casa» Le disse accarezzandole la barba ispida.
«Signora?» domandò il dottore, interrompendo quell’idilliaco quadro da famiglia del Mulino Nero. «Cosa faccio di questo qui? Lo getto tra i rifiuti, oppure vuole che glielo incarti e se lo porta a casa?»
«Lo incarti pure. Sarà un pasto diverso per quello che noi reputiamo come un secondo figlio: Caino, il nostro stupendo rotweiller». Detto questo, Gianna chiuse gli occhi, addormentandosi con un sorriso beato sul volto. Ivano uscì dalla camera, e il medico, fischiettando, prese il piccolo feto, e incartò la cena per il cane.
Amava il suo lavoro!
Marco Bazzato
27.02.2008