sabato 28 ottobre 2006

Ritorno a Nord Est


Dopo un anno di lontanza dall’Italia sono tornato nel Paese per un breve periodo di ferie. Quante cose appaiono diverse quando lo si osserva solo dallo schermo televisivo, o dagli articoli di giornali letti nella rete. Se ad un primo momennto la realtà vista da lontano poteva apparire tragica, il toccare nuovamente il suolo italico porta a rendersi conto della drammaticità e del declino che sta subendo. Sembra una china inarrestabile, uno scivolare verso l’abisso economico, sociale, culturale, che mai mi sarei immaginato di descrivere in modo così opprimente, e con una stretta al cuore, e un’altra aperta sulla mente cerco di capire quello che fino a poco tempo fà fù il mitico nord-est. Ora quello che è apparso ai miei occhi è un panorama desolante di una povertà non solo economica, vinto dalla concorrenza dei paesi che un tempo chiamavamo emergenti, ma sopratutto da una mentalità provinciale, che difficilmente negli anni a venire potrà reggere il passo dell’agguerrita concorrenza internazionale.
Ma non è solo l’aspetto economico che risulta desolante, ma anche l’aspetto culturale e sociale, che a parte i casi, per fortuna sopra la media e un apertura non pregiudizievole verso altre realtà extra Venete, appare in tutta la sua ristrettezza mentale.
Il mitico nord est arranca. Arranca sotto la spinta della sua doppia lingua, sotto l’impossibilità il più delle volte di sostenere una conversazione in Italiano. Il Veneto mi è apparso una regione così ancorata alle tradizioni, che non sa rendersi conto che la pianta dalle radici morenti genera molti frutti malati, e che difficilmente possono sopravvivere al di fuori del loro orticello innaffiato a spritz, ombrette di vino, e dialetto.
Ho provato ad osservare la regione privandomi dell’occhio critico, snaturandomi dalla volontà di dipingere solo quadri a tinte fosche, ma anche con le migliori intenzioni non ho potuto sottrarmi dalla sofferenza di vedere la regione che mi ha dato i natali che galleggia come se attendesse l’arrivo di qualche impossibile messia profetico. Galleggia tra urla di donne isteriche, nelle piazze, nei dialoghi privati, all’interno dei ristoranti, dove anche provando a richiamare l’attenzione della cameriera non si riesce a far cessare l’indescrivibibile frastuono, che sembra provenire dal profondo delle ugole impazzite, dal dolore rantolante di un coltello sventra l’addome, lacera i timpani, rendendo impossibile qualsiasi conversazione anche se a poche decine di centimentri l’uno dall’altra.
È un paese urlante, rumoroso, soffocato dallo smog mentale, dalla confusione, una regione che sebbene abbia alle spalle secoli di storia gloriosa, ora sembra una cartolina sbiadita consumata e consunta dal lento ed inesorabile incidedere del tempo. I Veneti una volta mastri calzaturieri, architetti, scrittori e poeti, sembrano più orientati a reinventare i fasti contadini di una tradizione morta, anzichè guardare al nuovo millennio con la rinnovata forza della tradizione culturale e sociale che hanno alle spalle, chiudendosi in un circolo vizioso, forse senza uscita.
È una regione che guarda allo straniero con l’occhio rancoroso di chi viene a rubare posti di lavoro che nessuno vuol fare, che guarda all’immigrato, qualunque esso sia come un ennesima bocca da sfamare alle spalle della collettività, dimenticando che la regione stessa, nel secolo passaato era costretta a lasciar morire i figli di pellagra e malaria, viveno in casoni insalubri e la mentalità clericale da bacia banchi asserviti li rendeva docili alla chiesa, pronti prima ad andare a pregare e poi a lavoare.
Una regione dove la frenesia è il pane quotidiano, è come un auto che corre a folle velocità verso un futuro fosco e nebbioso come la pianura padana, lungo un’autostrada perennemente intasata, alla rincorsa di una ricchezza materiale che rasenta la follia cieca, costretta a correre con il fiato in gola per l’esosità di un imposizione fiscale che sta soffocando non solo il ploletariato in via d’estinzione perchè delocalizzato, ma anche quella classe media che fino a pochi anni fa era il fiore all’occhiello, e rappresentava il biglietto da visita della piccola e media imprenditora, strozzata oggi ancor di più, da un governo nazionale che vede il piccolo imprenditore solo come un evasore e un parassita sociale da abbattere, e da tenere sotto controllo, vittima del grande fratello fiscale, mentre i veri evasori godono dell’impunità, avendo ditte registrate in paradisi fiscali, dove nessuno s’azzarda a mettere il naso per timore di scoperchiare il vermaio ivi presente.
La regione ha bisogno di una sveglia non solo economica, ma di un salto di qualità intellettuale e culturale, che non guardi solo a quel retaggio contadino che a parole tutti sembrano voler ricreare, ma che nei fatti nessuno non vuole e non può più avere.
Tante cose sono cambiate, e tante altre peggioreranno ancora se l’evoluzione individuale non andrà di pari passo con l’evoluzione del pensiero sociale, svincolato dal sentire individualista ma massificatrice fa si che si vedano nei caffè rinomati delle grandi città borghesi in piedi al banco intenti a mangiare un piatto di riso, somiglianti a somari che pasteggianno l’avena dalla greppia. Un paese così prima o poi sbatterà contro il muro della realtà, contro il cinismo che renderà inutile ogni forma di ricchezza economica e materiale, se non accompagnata da una visione diversa, più profonda, creante quella consapevolezza intellettiva meno attaccata ai valori di un esteriorità morente, ma più radicata nella coscienza individuale, dove l’uomo sappia essere uomo e non un ibrido che lo fa sembrare un timido asessuato, dove la donna sia meno matriarca e più donna, cosciente del ruolo famigliare e sociale, senza schiacciare e annichilire il maschio costringendolo a sedute di psicoterapia per togliersi dalla pelle i pensieri di un mammismo senza fine che li porta ad aver paura nell’altro sesso e rinchiudersi in fome di eterofobia difficilmente sradicabili dalla psiche.

Marco Bazzato
28.10.2006
http://marco-bazzato.blogspot.com/

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