martedì 26 febbraio 2008

Sanremo 2008: Stupro canoro


È iniziata! Disgraziatamente è iniziata la 58° Edizione del Festival di Sanremo. È iniziata sotto i peggiori auspici, nonostante la verve di Piero Chiambretti, che non ha lesinato battute nere, nei confronti dei direttori d’orchestra e verso il Pippone nazionapopoloare, giunto alla tredicesima dinastia, pardon, conduzione.

Un Festival fiacco, lento, sonnolento, un Festival che l’unico brivido che ha lasciato, almeno nella prima serata, sono state le numerose pause pubblicitarie, buone per andare a svuotare la vescica e per sgranchirsi le gambe e purificarsi la mente.

Un Festival di basso profilo nella scelta delle canzoni in gara: broccoloni (Nuove proposte) e Big: (Cariatidi), vecchie mummie della preistoria musicale, tolte dalla celle frigorifere, come i fiori o carne congelata, sbattuti sul palco a cantare abomini musicali, per poi, come in alcuni casi, essere riaccompagnate al ricovero psichiatrico coatto, per timore che si autofacciano la fine del topo, come qualche loro famigliare ha già fatto in passato.

L’inizio è stato una vera lagna, una tortura di Guantanamo o Abu Ghraib, un attacco preventivo iniziale alla forza di sopportazione degli spettatori in platea, all’Ariston, e a casa, con l’ormai nauseabonda “Volare” non cantata da Domenico Modugno, che in quanto morto, ha declinato l’invito, ma mal interpretata – quasi barbaramente – da Gianni Moranti, che a molti telespettatori ha fatto venire un attacco emorroidale.

Il Festival ha preso avvio, non come un auto nuova, ma come una vecchia carretta di quasi sessant’anni, come una vecchia cavalla rinsecchita che nonostante tette rifatte, liposuzioni, liftigng, o altri restauri plastici, rimane una vegliarda in menopausa, buona solo per raccontare racconti dell’orrore ai nipotini, sempre che il fiato puzzante di morte non li faccia fuggire via.

Il ronzino, canzone per canzone, cercava di muoversi, ma il peso dei lustri si sentiva tutto, sia da parte del presentatore, ma specialmente dal pubblico in sala, che applaudiva, forse perché costretto da scariche elettriche sulle chiappe.

Da menzionare, tra i figli di papà, come accaduto lo scorso anno con Dj Francesco e il padre Roby Facchinetti, la salita sul pulpito sanremese di un altro figlio d’arte: Daniele Battaglia, figlio di Dodi, storico componente di Pooh, che ha cantato un brano decisamente poco interessante, provando a ricalcare lo stile Pooh, ma senza il carisma dei medesimi, con evidenti stonature e voce che arriva ai toni alti.

Ma l’apoteosi della fetecchia, la vetta della distruzione canora, l’assalto kamikaze all’arma bianca degli ultimi bastioni rimasti d’un Festival decotto, d’una rappresentazione, che non rappresenta né la vera canzone d’amore italiana, né i veri artisti talentuosi, si avuta quando sul palco, ha fatto il suo ingresso la signora D’Alessio: Anna Tatangelo, con un brano scritto dal marito – alla faccia del nepotismo – dedicato ad un parrucchiere, o truccatore eterofobico, intitolato “Il mio amico”, che secondo le intenzioni dell’autore – D’Alessio – e dell’interprete – signora Tatangelo in D’Alessio – avrebbe dovuto commuovere – perché? – gli ascoltatori, declamante l’ amore” sempre che possa esistere amore tra persone dello stesso sesso. Un testo squallido, una canzone misera, da non far udire ai minori, che andavano allontanati dalla tv, proprio per non rimanerne disgustati dai contenuti, dove in molti, saranno corsi in bagno a vomitare il pollo o la pasta dell’agosto 2004.

Alla fine, tirando le somme – negative – non c’è da stare allegri. La direzione artistica mostra le corde della vetustità, come la conduzione, del medesimo; si salva solo Chiambretti, che però da solo – vista anche la bassa statura fisica, nonostante la bravura indiscussa – non riesce a sostenere il peso di una conduzione che mostra le corde in ogni suo punto.
Le uniche note di colore interessanti: la presenza di un microfonista, che per errori lampanti della regia, affidata a Gino Landi, ha fatto infuriare il Pippo nazionale, per la presenza inopportuna sul palco, e la bella e buona ungherese – come il salame - Andrea Osvart, che sorridente ha messo alla berlina la mania tutta italiana, di sentirsi e nominarsi ragazzi sino all’età di quasi quarant’anni. Fuori dall’Italia, specie nei cosiddetti Paesi dell’Est, ridono e sorridono di questa “nostra anomalia”, facendoci non solo, come disse Tommaso Paoda Schioppa, la figura dei bamboccioni, ma passando, peggio ancora, per dei burini di provincia, pronti a lodarsi e ad imbrodarsi senza ritegno, dimenticandosi che spesso il mondo ci guarda e ride di noi!


Marco Bazzato

26.02.2008

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