Marco Bazzato è un poeta italiano che vive in Bulgaria, e pubblica le sue poesie in Bulgaro, è questo è importante, perché fa della sua poesia una proprietà culturale anche del lettore bulgaro, aprendo davanti a lui nuovi orizzonti nell’interpretazione dell’esperienza intima, e nell’estetizzazione della sofferenza, sui modi classici per tradizione latina estranea alla tradizione bulgara.
Come Marco Bazzato estetizza la propria sofferenza, è chiaro già dal suo primo poema, scritto all’età di ventiquattro anni. Il poema s’intitola “Un mese di gioie e dolori” ed è focalizzato sui suoi turbamenti a riguardo un grave intervento chirurgico. Il Poema è notevole per la sua designazione meditativa. È scritto con semplicità diretta, in prima persona e in tempo presente. Il soggetto lirico osserva con tale attenzione penetrante quello che accade nell’attimo con l’anima e il corpo, e da questo diventa una trasformazione inconsueta dell’umano tempo presente (il tuffo nel torrente degli eventi) nel tempo presente divino (l’osservazione dall’alto). Nunc fluens iridisce magicamente in nunc stans-alchimia che espia ad ogni passo la sofferenza e la trasforma in una pace spirituale.
Ecco, questa è una cosa che mai non ho scoperto nella poesia bulgara!
C’è un pensiero che “una parte del godimento che proviamo verso la grande poesia, è dovuto dal sentire parole non sono indirizzate a noi). Nel poema “Un mese di gioie e dolori” il verbo è con questo livello d’intimità. Lo stesso autore afferma nelle note dell’autore del libro, che fu costretto “a sormontare la sua forte opposizione iniziale”. “È stata una decisione sofferta,” continua lui ,”per l’alto coinvolgimento personale e familiare in quel periodo, che ora sento di poter condividere”.
Io sono riconoscente per questa condivisione. Essa mi rivelò gli orizzonti di una specie di poesia sconosciuta per me, fino a quest’attimo.
Il poema è scritto da un giovane uomo religioso. Nelle ore serali, prima dell’intervento, lui si isola in una Cappella per pregare. È schiavo di “mille pensieri, mille timori”,” lo spirito è scosso, l’animo confuso, il corpo vuoto”. La scenda davanti al crocefisso è commovente e vera (“Entro, con gesto nervoso mi segno…mi inginocchio, congiungo le mani…alzo gli occhi, osservo la croce, in quel momento mi sento capito, confortato, amato, mi sento vicino al Padre del mondo….mi alzo, l’animo è confortato, lo spirito è rinato…non ho parlato, non ho pregato, ma mi sento capito…”). In tre battute, c’è questo dialogo senza parole con Dio-“Mi inginocchio, congiungo le mani”, “alzo gli occhi, osservo”, “mi alzo, lo spirito è rinato”- un sacramento solitario di confessione e consacrazione, seguito dalla sensazione di espiazione alla fonte invisibile dell’esistenza.
La comunione con Dio è il primo dei tre “riti” serali prima dell’intervento. Il secondo rito è fumare un sigaro, il terzo è mangiare un’arancia. Tutti i tre riti sono trasmessi in una lingua sacramentale, essi si compiono come misteri, e non come atti profani. I riti sono pregni di contemplazione e di godimento nella loro esecuzione. Tutto è compiuto in modo assolutamente centrato, e con un’attenzione sottolineata; il soggetto lirico sa cosa compie e porta la consapevolezza del medesimo: “sono tranquillo, felice e sereno, ho fatto quello che ritenevo giusto, ho fatto quello che ritenevo andasse fatto in mia responsabilità”.
Il mattino seguente inizia la preparazione dell’intervento. Il punto cruciale è lo spogliamento dei vestiti, e il rimanere nudo. Questo spogliamento è trasmesso in forma passiva e forma attiva (“Mi fanno spogliare, mi tolgo tutto”); da quel momento fino alla fine dell’intervento, predomina la forma passiva (“Lentamente mi spostano” “portandomi via,”, “mi chiedono con delicatezza”, “mi coprono”, “mi osservano” etc) . La posizione del soggetto più frequentata “osservo tranquillo e sereno”-una prospettiva di imparzialità che irriga con una bianca luce contemplativa il passaggio dall’attività in passività e viceversa. Il soggetto muore e rinasce nuovamente, osservando dall’alto “tranquillo e sereno”. È come se palpassimo quella piccola vena della filosofia latina che permanente cerca i modi per vivere in modo invulnerabile il mondo. Una tale invulnerabilità non ha nulla in comune con il camuffamento e la maschera. Essa vuole una totale denudazione – come in un atto battesimale, nel varcare i confini esistenziali. Perché il denudamento getta la luce su quella linea tenebrosa tra il torrente delle emozioni e la coscienza osservante, delineando il secondo per conto del primo, come un vero letto d’invulnerabilità.
Io non ho mai letto una poesia così dell’essere, così franca e denudata in Bulgaro. Poesia priva di qualsiasi pretesa e ambiguità, però caricata di spiritualità, e la spiritualità sempre sorge dalla semplicità. Per una persona come me, abituata ad una lirica oggettivo-sensoriale, nel quale “l’essere” si narra tramite le forme attorno (piuttosto nascondendosi in esse), la poesia di Marco Bazzato, è una sorpresa. Questa poesia può essere scritta solamente da una persona arrivante da una cultura dell’Ego, irremovibilmente antropocentrica, com’è la cultura italiana.
Come tale uomo internalizza il dolore della carne violentata già lo sappiamo. Come però internalizza il dolore dell’animo innamorato, verso questo ci da la chiave il poema “Venezia per sempre”. Il poema è uno specchio estetizzato di un amore interrotto e rinnovato in uno spasimo tragico. Il filo conduttore di quest’interruzione e rinnovamento è così tipico nella cultura latina equilibrio tra continuità e discontinuità, dove come base storica c’è il cataclisma della caduta dell’impero romano, ed è espressione estetica, ed il patos di una sensazione di rottura che si deve guarire con il rinascimento, con la sequenza obbligatoria morte – risurrezione (problema ricercato magnificamente da Salvatore Settis nella sua opera “Futuro del “Classico”).
Perciò in “Venezia per Sempre” l’amore interrotto dalla morte, rinasce in un altro tempo\spazio. La cagione di questa resurrezione si può sintetizzare con l’inevitabilità per via dell’incompletabilità. La spiegazione è genialmente semplice – entrambi si conosciamo da una vita precedente, quando sono stati amanti in una remota Venezia rinascimentale, ma il loro amore fu lacerato da una separazione precoce (lui – come l’ammiraglio Agostino Barbarico – andò a combattere conto i Saraceni nel mare; partì in un giorno d’autunno nel pieno di “un autunno senza colori” come per una battaglia di Lepanto dove decade; questo certamente è solo una lettura spettrale della storia!). Più interessante è la lettera d’addio del soggetto lirico per l’amata, che da una visione verso l’avvenire del loro amore. Ambedue si reincarneranno nuovamente e s’incontreranno in un’altra vita, perché il loro amore tutto non può miseramente così. Ecco questo il filo della continuità intrecciata sopra le rovine della discontinuità, concentrata nella perspicacia filosofica “ la vita è un’eterna illusione, continuo riflusso in nuove vite, dimenticanti l’antico passato”. Il passato si dimentica, sopra la nuova vita cade il velo dell’oblio , che non permette all’individuo d’accorgersi che lui stesso è costruito non solamente della presente identità nazionale e religiosa, ma anche di una identità più ampia che inserisce le abilità passate in altri corpi. Giustamente la nostalgia per completare le esperienze passate, sono il motivo di nascere oggi, qui. Dunque il nostro presente risulta condizionato dalle cose per le quali dicemmo tempo fa sospirando “Perché il tutto non può finire miseramente così”. Queste cose sono il carburante delle nostre reincarnazioni. Vedersi faccia a faccia coi fatti delle nostre brame che ci conducono al completamento, ecco per questo ci vuole coraggio!
Non so quale motivo Marco Bazzato ha scelto di vivere in Bulgaria. Forse voleva sfidare se stesso, mettendosi in un ambiente linguistico e culturale estraneo. Una sua poesia scritta in Bulgaria, termina con le parole: “Senza dimora ed identità” che mi fa pensare che è arrivato in Bulgaria non per imparare ad essere bulgaro, ma per disabituarsi ad essere italiano.
Mi danno il pretesto le sue ricerche. Come ad esempio la sua proposta d’essere introdotto un articolo nella Costituzione Italiana che garantisce il dritto di Coscienza – diritto d’esprimere pubblicamente quella voce interiore che arriva dalla coscienza privata dell’individuo, ma dalla comune coscienza impersonale, verso cui la chiave è la sofferenza. La sofferenza è lo strumento che frantuma il guscio dell’ego, e snuda l’individuo della privacy (“Davanti all’umano dolore non esiste privacy, siamo tutti nudi innanzi ad esso”), e invece la nudità marchia quella capacità di varcare i confini esistenziali, i quali nella condizione nella condizione abbigliata sono insormontabili (Vedi i poemi “Un mese di gioie e dolori” e “Nero destriero”).
Quello che inquieta Marco Bazzato è anche la razionalità esagerata dell’ambiente moderno, portante alla trasformazione dell’individuo in “Piccola marionetta umana, nelle mani dell’uomo, allontano dall’Uno”. Appunto nel legame con Dio, nella capacità di vivere l’amore, Marco Bazzato vede l’ultimo porto per l’uomo, e il sostegno alle sue virtù. Lasciato senza essi, lui è un giocattolo per l’ambiente, il quale è solamente “Forza lavoro e consumo, senza culto e pietà”. Un ambiente condotto da una clinica convenienza, un ambiente – “Disegno di lucida follia, gli inferiori eliminati, i non produttivi sterilizzati, i parassiti sociali disinfestati”.
Marco Bazzato non vede via d’uscita. Lui è un poeta dell’Apocalisse, per lui ormai è tardi – l’umanità e già precipitata verso la stazione di non ritorno (“Stazione senza ritorno”), maestri oscuri lo conducono nel silenzio verso l’abisso (“Maestri oscuri conducenti in silenzio l’uomo all’abisso”). L’uomo non è già seme d’amore (“Non è più uomo seme d’amore”), non è già la donna antro di vita (Non più donna antro di vita”), falli e ventri e sterili, cicli arrestati, feto in uteri sintetici…tali incubi dipinge la sua immaginazione cattolica.
Io non ho un punto di vista per l’Apocalisse (una tradizione ripetuta spesso nella poesia latina). Può darsi che la civiltà sprofonderà, può darsi che la grazia intervenga nell’ultimo attimo – tutto è possibile, tutto è nelle mani dell’Assoluto. Quello che mi scuote è lo sguardo assetato verso l’essenza dell’uomo, verso quest’essenza sacrale che deve essere trattenuta ad ogni costo, nonostante le tentazioni d’essere strumentalizzata e focalizzata sotto l’occhio dissettivo del Tecnico di Laboratorio.
Quest’essenza è l’amore – saldamento e fondamento dell’esistenza. L’amore è sacramento, mistero. Impossibile d’essere controllato dall’uomo; lui può lasciarsi d’essere condotto solamente dall’amore (come dice Marco Bazzato “Mi sono lasciato guidare dall’amore”). Questo amore è un atto cosmico, nel quale entrambe le due metà divise dell’umanità si uniscono in un cerchio, dal quale nasce la vita. Il seme dell’amore disegna il primo arco, l’antro della vita disegna il secondo – come nella poetizzata metafisica di Aristotele, dove il principio maschile nasce il femminile, lo spirito – la materia, il seme – il frutto.
(Non mi è conosciuto nella poesia bulgara tale modo di romanzare l’atto del concepimento, che da un contesto universale del sentimento d’amore, aprendolo fino ad un oratoria potente per la creazione ad infinutum.
Abbiamo l’amore nelle sue intonazioni angeliche d’espiazione nelle opere di Javorov, abbiamo l’amore come dramma personale, come pretesto d’affogarsi nella screziatura del mondo che ci circonda, come motivo di dichiarazione e patetica, come un gioco delicato dell’erotica soggetto e oggetto, però l’amore come un atto cosmico della creazione – quello l’ho scoperto per la prima volta in Marco Bazzato. In modo diretto snudato senza nascondersi dietro a metafore).
Questo amore creante ha come motore il seme maschile. Esso è causa prima, sta nel fondamento del movimento verso l’arrotondamento, verso il ritorno alla fonte primaria. È morto il seme, è nero il seme – tutto è guasto nell’atto del concepimento. “Seme nero” è il titolo di uno dei poemi di Marco Bazzato è il segno di sterilità della nostra civiltà, e dal seme nero non può nascere nulla di sano – l’unico frutto maledetto di un peccato non espiato “Frutto maledetto di peccato inconfessato”.
Mi piace questa ricchezza d’immagini. Essa mi ricorda il “Giudizio Universale di Michelangelo, il nudo Adamo di Masaccio, La consolazione filosofico di Boezio, il massimalismo morale di Dante, le lacrime di rammarico davanti a Beatrice, sensualità ardente di Petrarca, la nudità regale dell’Uomo Vitruviano, le espansione di Ernani davanti alla camera matrimoniale , ancor di più altre cose come i bianchi archi pieghettati della mensa del Monastero di Santa Maria della Grazie, ripetuti nelle bianche falde della camicia lavata di Agnolo Doni dipinte dal Raffaello.
La Dottoressa Nellie Nedeva è Nata a Shumen, Bulgaria nel 1969. Laureata in medicina all'Università di Varna nel 1993. Ha vissuto a Città del Capo, Sudafrica dal 1995 al 2001. Dal 2001 vive in Nuova Zelanda dove risiede attualmente. Ha Pubblicato il libro “La donazione„. Ha vinto il premio speciale “Sviluppo„, Bulgaria – 2000, “l'unione Sacra nei miti e la letteratura„ (2006) e “Christ in Valentinian Gnosticism„ (2007) disponibili in forma elettronica. I suoi interessi sono la scrittura creativa critica letteraria, studi religiosi comparativi, il simbolismo gnostico nel cristianesimo.
© Traduzione di Vessela Lulova Tzalova
Marco Bazzato
01.02.2007
http://marco-bazzato.blogspot.com/