Prendo la palla di stracci cercando di non inciampare sulle membra piovute dal cielo durante l’ultimo attacco. Nulla cambia attorno a me, nulla varia dall’inizio della mia vita, da, quando gli occhi si sono aperti innanzi all’orrore. Non c’è vita oltre questa vita, non c’è speranza per noi, imprigionati dietro quel muro infame che ci fa prigionieri in un ennesimo campo di concentramento a cielo aperto, chiamato da altri con nome diverso.
Tutto doveva essere dimenticato. Tutto doveva essere ricordato degli orrori del millennio passato, ma quei morti bruciati, carbonizzati, quei cadaveri ridotti in cenere oggi sono con noi e mi tengono la mano. La sento, la tocco, è scheletrica e ossuta come la mia. Il suo stomaco grida per la fame come il mio. Il suono è il medesimo, come uguale l’atrocità che ha subito, e ora i miei occhi precocemente adulti vedono attorno e in me.
Mi parla all’orecchio, ma altri non possono udirlo, ascolto le sue preghiere rivolte a J.H.V.H, rivolte a Adonai. Sento la sua mano sfiorare la mia, e con un gesto m’invita a rivolgermi al mio Dio, ad Allah, lo stesso Dio assente ieri come oggi, dei nostri sacri testi.
Dov’era Adonai in quei campi passati, dov’è ora Allah? Forse nascosto oltre quel muro? Forse è nascosto e ascolta silenzioso le nostre comuni preghiere?
Tocco con la mente la sua Kippa, tocca con lo spirito la mia Keifa. Lo stesso tessuto lavorato dall’uomo, lo stesso Dio, la stessa Fede, lo stesso dolore, la stessa morte. La morte.
Vorrei poter vedere il suo sorriso, vorrei che potesse vedere il mio sorriso in cerca di una speranza rivolta al futuro assente.
Prendo la palla tra le mani, è sporca di terra e imbrattata di sangue. Ho le dita chiazzate, le dita nere e la mente intorpidita per le grida stridule che odo.
Si avvicina l’ennesima sera, l’ennesima notte infernale, dove il cielo sarà illuminato a giorno dai razzi traccianti, dove altri innocenti saranno sacrificati per un olocausto senza fine.
Oggi come allora nessuno vuole sentire il pianto degli innocenti. Oggi come nel millennio passato in troppi chiudono gli occhi, si tappano le orecchie innanzi al genocidio che si sta compiendo, innanzi allo sterminio indiscriminato che quotidianamente si compie.
Oggi come allora parlano i politici, parlano i proclami pubblici, e gridando si addossano le colpe l’uno all’altro, ma è sui nostri capi che cadono i missili, sono sui capi dei nostri fratelli di là del muro che cadono i nostri missili causando terrore distruzione e morte.
Valiamo meno dei granelli di sabbia sulla spiaggia, siamo povere pedine di una scacchiera impazzita, pedine senza re e regine, perché come vili vivono protetti, osannati e riveriti, mentre la nostra tavola è vuota, lo stomaco grida, e negli occhi non abbiamo più lacrime per piangere i genitori, fratelli sorelle e amici perduti.
Siamo colpevoli! Sì colpevoli come i nostri fratelli gasati e cremati. Colpevoli d’avere un Dio diverso, d’avere una Fede nata dagli stessi padri, ma la discendenza degenere si è frantumata e divisa, leggendo, scrivendo, narrando e creando muri d’incomunicabilità e odio.
A chi rivolgo la mia preghiera? Alla Mecca? Non posso prostrarmi a terra nella giusta direzione, perché attorno a me, nulla vedo se non desolazione, morte e mura che salgono al cielo? Al Dio degli Ebrei? Implorando pietà affinché metta fine alla nostra tribolazione e abbia clemenza di noi presunti infedeli al suo cospetto? Al Dio dei Cristiani, che secondo le loro usanze sarà ricordata la sua nascita tra pochi giorni? Lo stesso Dio che ci chiama infedeli, come noi chiamiamo loro crociati infedeli?
No, quest’anno non rivolgerò alcuna preghiera a nessun Dio umano. Non compirò alcun sacrificio a nessuna divinità musulmana ebrea o cristiana. Oggi mi riunirò in silenzio tenendo per mano il mondo, tenendo nel cuore quanti vorranno elevare una preghiera per quei morti sterminati dall’uomo in tutti i millenni passati, riflettendo sugli orrori che oggi vedo davanti a me. Non guarderò le loro religioni, ma i loro cuori, sapendo d’avere accanto quell’amico che sorridendomi con la sua mano ossuta si sistema la Kippa, e con l’altra m’accarezza la Keifa, infondendomi con un sorriso la certezza di un futuro oltre quel muro, dove in passato aveva letto per migliaia di volte: “Il lavoro rende liberi”.
Marco Bazzato
15.12.2006
http://marco-bazzato.blogspot.com/
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