domenica 24 dicembre 2006

La malattia non è mai un caso privato


In un editoriale dell’Avvenire[1], l’editorialista, fa affermazioni, nascoste sotto forma di domande, grevi, e al limite della calunnia, quando scrive: “Vuole trasformare il suo tragico caso "privato" in un caso "pubblico", per orientare, come è lecito che faccia un leader politico, la politica sanitaria del paese?” riferendosi al caso Welby, il giorno precedente alla morte dell’uomo.
Ho provato orrore quando ho letto simili parole. Orrore e raccapriccio, quando una persona, di cui non conosco il suo vissuto personale, ma conosco il mio, scrive che il dolore è un fatto privato, e che come tale deve rimanere circoscritto. Va forse vissuto nella vergogna del silenzio per non turbare la presunta sanità dei sani?
Non so se il signore in questione ha mai sentito la spada di Damocle sul capo, se si è mai svegliato nella notte urlando per dolori insopportabili, desiderando la morte come senso assoluto di liberazione dal male? Se non l’ha provato sulla sua pelle, lo invito ad un rispettoso silenzio, nel nome di quanti non sanno che farsene di teorie da strapazzo quando il corpo urla, e tutto nell’essere dolorante desidera solo la cessazione di quello che taluni, sadicamente chiamano dolore salvifico. Salvifico da chi, e per chi?
Il dolore è sempre un fatto pubblico, perché quando un familiare soffre, assieme a lui si condivide la sofferenza, soffrono amici, i medici che si sentono impotenti e che non sanno a che santo voltarsi per trovare una cura adatta.
Affermare che il dolore è un fatto privato, è un insulto privo d’umanità nei confronti del dolore stesso, da parte di una persona che si reputa Cristiana, ma quanto scritto in forma interrogativa, sa molto d’Anticristiano.
Ho letto un editoriale intriso di filosofia di bassa lega, una filosofia priva del rispetto primario del dolore e della sofferenza, totalmente assente e fredda nei riguardi di quanti, non solo il defunto Welby, ma di quanti ogni giorno si dibattono sui letti d’ospedale, nelle case di cura, negli ospizi, una filosofia dove anche l’umana pietà è morta, sconfinante nel disumano.
Partendo da queste spaventose affermazioni, si potrebbero addirittura sposare le tesi stesse della dolce morte, in quanto questi casi privati, non essendo di pubblico interesse potrebbero essere tranquillamente essere lasciati abbandonati al loro destino, visto che nessuno li dovrebbe udire e sentire. Era forse a questo che realmente voleva arrivare?
I radicalismi estremistici spesso s’incontrano, si stringono la mano e si abbracciano, fondendosi in un'unica voce indistinta che va sotto il nome d’assolutismo impositivo del pensiero unico.
Come essere umano, come cittadino, come ex paziente che per anni ha visto davanti ai proprio occhi il cappio oscuro della morte danzarmi sul corpo martoriato, dove senza vergogna dichiaro che sovente ho pensato e sentito che unica via d’uscita fosse porgere il collo a quel cappio, e lasciarmi penzolare affinché l’oblio totale dal dolore mi cogliesse, non posso che essere solidale nei confronti di quanti, vittime di dolori indicibili, e in piena coscienza invocano la liberazione dalle catene fisiche della vita stessa, quando essa supera la soglia della non vita ,e anziché l’esistenza essere un altare di libertà, un tabernacolo di speranza, la vedono, la sentono, la vivono sulla pelle come patibolo, come una pira da cui attendono la dissoluzione tra le fiamme.
È facile formulare ipotesi astratte, teorie astruse e d edificanti per lo sciocco, ma il dolore è un fatto reale, non una mera astrazione intellettuale, il dolore è una piaga che spurga pus venefico in ogni cellula del corpo malato, e non è un fatto privato.
Formulo anch’io un ipotesi: non è per caso che si creda che il popolo sia ancora bue, sia una massa primitiva e medioevale da guidare al pascolo come meglio si crede, bastonandolo sulle ferite, quando esse gridano e suppurano per il dolore stesso? Voglio spingermi oltre. Conosco molte persone che per vigliaccheria, o per storia personale non si sono mai confrontante con alcun tipo di dolore fisico o psichico, e dall’alto del loro pulpito, colmi di vuota sapienza, giudicano, condannano, attaccano quanti vivono in quell’androne infernale, e hanno la favella semplice, e i pensieri, forse un po’ troppo confusi da teorie spicciole?
No, non ci siamo, non ci siamo proprio. Spingersi a politicizzare un evento doloroso, usando metaforici sfottò nei confronti di un essere umano, che esattamente come lei, ma che a differenza di lei, ha passato i suoi ultimi vent’anni attaccato ad una macchina per respirare, mi troppo. È troppo proprio per il dolore che quell’uomo a subito, è troppo per il dolore che i familiari hanno visto giorno per giorno nei suoi occhi e di riflesso anche nei loro, ma è un caso privato vero? Non deve importare a nessuno, nessuno deve sapere. Non era un personaggio pubblico, e non doveva diventare un personaggio pubblico, doveva restare un miserabile malato, non doveva alzare la testa per battersi per quello che lui dentro di sé, nel suo profondo, nella sua interiorità sentiva giusto per se stesso.
Alcuni benpensanti affermano che la politica ha strumentalizzato Welby usando il suo dolore e la sua sofferenza per potare avanti le loro battaglie. Certo, sicuramente sarà vero, ma alla fine è stato Welby che in primis ha vinto la sua battaglia, ha ottenuto la sua vittoria, trovando quella pace agonista che qui, da vivo, tempo aveva perduto.
Ma Piergiorgio Welby ha subito un’ultima infamia dopo la morte, un ultimo sfregio ad un uomo coraggioso che ha saputo lottare per i suoi ideali[2]. Il vicariato di Roma ha negato i funerali religiosi, perché, precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica (vedi il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2276-2283; 2324-2325). Non vengono meno però la preghiera della Chiesa per l’eterna salvezza del defunto e la partecipazione al dolore dei congiunti.
Questo mi porta a chiedere lumi sui funerali del dittatore cileno Pinochet. Strano che la chiesa cattolica locale, che naturalmente fa riferimento al Vaticano, non abbia rifiutato le esequie religiose pubbliche ad un feroce dittatore, macchiatosi di orrendi crimini, lì non c’era il catechismo della Chiesa Cattolica, con i suoi codicilli atti a fermare il rito, e nemmeno il Papa, sempre così attento al relativismo assolutistico morale ed etico, non ha speso una parola per bloccare una tale infamia irriguardosa nei confronti dei familiari delle vittime.
Sarebbe interessante una dotta risposta da parte di eminenti teologi, sacerdoti, dottori in filosofia, ma soprattutto da parte dell’editorialista dellAvvenire, che spiegasse l’arcano mistero della fede.
Welby è morto, ma come il predecessore di Benedetto XVI, ha reso pubblico il dolore, la sofferenza, senza vergognarsi della sua condizione, senza tenere nel privato il dolore, che secondo qualche benpensante dovrebbe andar messo nel sacco delle immondizie, rendendoci partecipi del suo calvario, del suo Golgota, scegliendo quando per lui era giusto morire, e da uomo libero, ha vinto la sua battaglia personale per un suo diritto, tutto il resto è solo politica spicciola, è accanimento terapeutico immorale ed oscurantista di quanti pensano che l’uomo non sappia ragionare e discernere con la propria testa, ciò vale per quanti spingono a favore dell’eutanasia, e per quanti si battono per il diritto alla vita, dal concepimento, fino alla morte naturale.

Marco Bazzato
23.12.2006
http://marco-bazzato.blogspot.com/

[1] db.avvenire.it/avvenire/edizione_2006_12_21/articolo_711526.html
[2] romasette.it/modules/AMS/article.php?storyid=122

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