È cinico da dirsi, ma lo scrivo sulla base dell’esperienza personale, dopo aver affrontato fin ora dieci interventi chirurgici nell’arco di trentasette anni di vita, quindi con convinzione di causa, che un ammalato, quando entra in ospedale, in sala operatoria, o in un reparto di terapia intensiva, deve mettere in conto la morte, avendo l'onestà e la lucidità mentale di sapere che potrebbe uscire con le gambe in avanti, dentro una cassa da, e non con passo dopo passo, indipendentemente dall'età del paziente.
Ho sempre visto in una struttura ospedaliera un luogo di vita e morte, un luogo di sofferenza e guarigione, un ambiente ovattato, in teoria sterile, dove la morte - non solo per me - era perennemente in agguato, pronta ad afferrare il malcapitato di turno per cause naturali, errori medici, esplosioni di una bombola d'ossigeno in sala operatoria, drammi scampati a filo di rasoio, o per tragedie dell’imperizia, della faciloneria, dell’errore umano o diagnostico.
Morti che hanno però un unico comune denominatore: la malattia intesa come sofferenza, come piaga personale fisica - ma non solo - che porta a toccare con dito l'aldilà, il nulla, la scomparsa, l'arrestarsi del cuore, all'ineluttabilità della morte, la tomba, la terra, la dissoluzione del corpo, trasmutato in cenere, l'eternità di non esistere più, se non per alcuni decenni, nei ricordi dei propri cari.
Ma la tragedia non è il morire in se – evento naturale, che ha come causa la vita stessa – ma il dolore dei sopravissuti, quel dolore che il morto non può sentire, quel dolore, che nella speranza, nell'illusione, nella presunta certezza di una guarigione, svanisce, evapora, si dissolve, portando con se nella terra, sogni, speranze, illusioni.
Ho visto molti pazienti morire in ospedale, ricordo i loro volti emaciati i giorni prima del decesso, i loro sguardi, il tendere la mano verso una non vita/vita che si avvicinava a grandi passi, dove pur cercando di fuggire, vedevano che l’ineluttabilità della dissoluzione arrivava a grandi passi.
Morire di malasanità, non è altro che uno dei molti modi di morire, non diverso da quello della fatalità d'essere travolto da un'auto in corsa, o mille altri modi diversi d'andarsene, dove però, forse a differenza del "sano?", ha la coscienza e l'autocoscienza, che la vita stessa, nasce, vive, svanisce e trapassa in un attimo, che poi si dissolve per sempre nell'eternità del non esistere più per sempre.
Marco Bazzato
07.05.2007
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