Precedente…
Gianna era riuscita a raggiungere la cucina. Udiva due porte più indietro le grida del marito che malediceva i vivi ei morti, augurava tragedie a lei e a Samuele, detto Giuda, il piccolo grumo di cellule evacuate, partorite o messe al mondo, a seconda della gradazione alcolica dell’uomo, dalla moglie 9 anni prima. Sapeva, ora che si era barricata in cucina, che avrebbe dovuto faticare per stanarla. Ma quello non era un problema. Avrebbe fatto come da abitudine: urlato, sbraitato, battuto i pugni sul muro e sul tavolo del salotto, fino a quando alla moglie non fossero saltati i nervi. Si divertiva a vederla arrabbiata e furiosa, la amava ancor di più quando la sentiva inveire contro di lui, quando minacciava di cavargli gli occhi,anche se aveva la sensazione che questa volta le cose sarebbero andate in modo diverso dalle precedenti.
Gianna nel frattempo cercava di riacquistare lucidità. Era stata strappata dal sonno e aveva ancora la mente intorpidita ed era affamata. Ma alla fame poteva rimediare, mentre Ivano no, anche perché dopo che pochi mesi prima era stato rapinato, il portafogli era perennemente vuoto e sarebbe stato costretto a scendere a compromessi. Il frigo era pieno, c’erano provviste per giorni. Sorrise tra se. Era un sorriso beffardo, di sfida, un sorriso maligno che racchiudeva un odio primitivo, non rivolto all’uomo che amava, ma verso quel passato che aveva chiuso in un cassetto, a doppia mandata, dei ricordi.
Aveva,come previsto,iniziato a gridare. Erano come guaiti di un cane ferito, come amenti di un bambino agonizzante dopo che la sua casa è stata distrutta da un attacco aereo e piange disperato, perché attorno c’è solo morte, desolazione e sangue. Il volto di Gianna, a quei pensieri, prese una bianca luce cadaverica, come se il dolore altrui, oltre che consumarla, la rendesse più forte. Quel cane del marito continuava a latrare, mentre nuove immagini si formavano nella mente, dandole piccole scosse clitoridee, come se un picchio le picchiettasse col becco su quel favoloso punto sensibile. Immaginò il cane lanciato giù dalla scarpata dai marines americani in Iraq . Immagini erano messe su You Tube, per la gioia degli antianimalisti che reputavano l’uomo superiore alla bestia, per la goduria dei cacciatori lapponi o della Groenladia, che per denaro, gioiosamente randellano al capo i piccoli di foca, solerti come una madre premurosa, attenti a non rovinare quelle preziose pellicce, faticando a bastonare, quando si indurisce il membro, non per il freddo, provocandoli fremiti di piacere sulla punta del glande. Gianna sognava d’essere in quella landa desolata dell’Iraq, in mezzo agli aromi della battaglia, assaporando il nauseabondo tanfo degli agenti chimici, od essere giù dal dirupo, dove i militari avevano lanciato il cucciolo e fissarlo sugli occhi, mentre col cranio mezzo fracassato e le interiora che uscivano dall’addome, a fatica prendeva gli ultimi respiri di un’aria contaminata per spirare cercando, con quegli occhi animali, una pietà che non meritava.
Ricordava con piacere, quasi fisico, quelle volte, già pochi mesi dopo il matrimonio, si fermavano, con la vecchia, sempre, sudicia Lancia Prisma nera sui cigli della strada, quando vedevano qualche animale ferito. Ivano era stata la prima persona, che lei aveva fatto conoscere l’altra faccia dell’animalismo, non come falsa propensione all’amore verso le bestie, ma proprio al far uscire l’individualità animale represse per falsi indottrinamenti sociali. Non si erano ancora sposati, quando si fece il suo primo cucciolo che gli era ancora stampato nel cuore. Era un bastardino, forse di pochi mesi, che tornando da Venezia, avevano visto lungo la Statale Romea, la statale della morte, chiamata così per l’alto lavoro che procurava a carrozzieri e becchini. Fu lei che vide il cucciolo sul giglio della strada. Ivano, che con la sigaretta perennemente in bocca e le due fiaschette, una di vino e l’altra di grappa, a portata di mano, complice l’alcol ingerito e lo stomaco vuoto, tentando di tenere in strada la Prisma, che con le gomme lisce sembrava uno sciatore che terminata una sniffata di coca, fa la discesa libera della coppa del mondo, non si accorse del frugolo peloso agonizzante.
«Frena, ubriacone di merda che non sei altro!» sbraitò la donna, soffiando fuori, trattandosi dall’ennesimo accesso di tosse, dovuto al cannone di Maria che lei e Ivano si passavano a vicenda.
«Cazzo vuoi, tossica che non sei altro?» domandò mentre l’auto sbandava paurosamente verso sinistra, mentre dalla corsia opposta giungeva un autocisterna dell’Agip.
«Vacca tua madre! Ci porti ad ammazzare, sterza, razza di idiota» urlò, come una gallina drogata, Gianna con le mani sugli occhi, assicurandosi l’anima o a qualche santo o a qualche demone.
Ivano, come di solito sbraitando, era riuscito a riprendere il controllo dell’auto “per un pelo di figa”, sterzando bruscamente dalla parte opposta al mezzo, scivolando sul ciglio della strada e rischiando di finire sul fosso.
«Torna indietro, dai. Ho visto un coso interessante» sibilò stridula col cuore che batteva in gola, non per colpa del mancato incidente, ma per il terzo cannone che si era fatta nel giro di poche ore.
Ivano inchiodò la Prisma e dopo aver ingranato la retro, fece marcia indietro. Il bastardino agonizzante era a poche decine di metri da dove si erano fermati. Appena lo vide, arrestò l’auto e imprecando come un ossesso, lo prese per la collottola sollevandolo da terra.
«Dove cazzo lo metto? Puzza da far schifo e non lo voglio in auto».
«Ma di cosa ti lamenti? ‘sto cesso e più sporco del letamaio per le vacche di mio nonno!»
«Fanculo!» sbuffò Ivano.
«Mettilo davanti alla ruota sinistra» ordinò Gianna scendendo dall’auto, attenta a non scivolare o cadere a terra, visti i forti giramenti di testa dovuti alla droga fumata. «Poi Sali in macchina e lentamente passaci sopra. Voglio vedere se riesci a schiacciargli la testa» terminò accucciandosi a terra e alzando la gonna, rilasso la vescica, traendone un orgasmico godimento. Dopo che ebbe terminato, fece cenno ad Ivano di avviare l’auto, e attese.
Il cucciolo respirava a fatica, ma come se l’animale fosse dotato di anima, iniziò a guaire, cercando di rialzarsi almeno sulle zampe anteriori, che non sembravano rotte dal precedente impatto.
«Muoviti Ivano, questo piccolo bastardo sta cercando si scappare. Brutta bestia maledetta!» imprecò la giovane.
L’auto avanzò lentamente e Gianna osservava gli ultimi attimi di vita del cucciolo con le lacrime agli occhi. Quando la macchina, col pneumatico, iniziò a premere sul piccolo corpo, l’animale iniziò ad abbaiare con il poco fiato rimastogli in gola e Gianna che avrebbe voluto darsi piacere da sola, godeva udendo i rumori delle ossa che si spezzavano, generando suoni sinistri. Quando la ruota premette sulla testa, che, esplose, con un rumore sordo per il peso sovrastante, schizzando sangue e materia celebrale sull’abbondante decoltè della giovane, che batteva le mani come una bambina a cui avevano appena regalato un giocattolo nuovo.
«Bellissimo, stupendo, fantastico» diceva ridendo al colmo del piacere, mentre Ivano dopo aver spento l’auto era sceso per ammirare e condividere con l’amata, la gioia per il loro capolavoro.
«Sei contenta, amore?» domandò sorseggiando l’ennesimo goccio di grappa, prima d’allontanarsi barcollante per andare ad orinare nel fosso.
«Si, mi hai fatto felice. Quando hai finito, vieni a vedere anche tu. Sei stato grande. Peccato che non hai sentito lo scricchiolio delle ossa quando la ruota gli schiacciava il cranio » gridò, cercando di farsi udire da lui, che nel frattempo aveva terminato e si stava chiudendo la patta.
«Hai degli schizzi di sangue materia sulle tette! Vacca che non sei altro».
«Ho visto, non serve che rompi, stronzo…mi credi fumata? Rispose, prendendo dal sacchetto che portava in borsa alcuni grammi di fumo per rollarsi l’ennesimo sballo.
«Guardati, sei ridotta da schifo. Non ti reggi in piedi e invece di berti qualche fiaschetta di grappa, continui a fumarti quel cesso di roba li».
«Senti chi parla! Lo stronzo che si fa meraviglia della merda. Se prima non ti avessi gridato in faccia, a quest’ora saremmo belli che spiaccicati addosso a quel camion, vecchio barbone puzzolente che non sei altro».
Gianna sospirò ripensando a quel giorno. Erano riusciti, non sapevano come, a tornare a casa, dove a turno, avevano messo la testa nel cesso, vomitando anche il cibo ingurgitato il mese precedente. Ma come diceva il professore di matematica di Ivano delle medie, durante le lezioni di scienze, “ Il vomito non è altro che merda che esce dalla bocca”.
Il marito, con lo stomaco che brontolava furiosamente, aveva iniziato a scaccolarsi il naso. Era un abitudine presa da bambino, che genitori aborrivano e avevano fatto di tutto per toglierla, , ma lui godeva, anche se impubere, quando questi urlavano come ossessi.
Crescendo aveva imparato, che non era solo piacevole esplorasi le narici e riporre delicatamente i prodotti estratti sul lato destro di maglioni, magliette o camicie, ma dopo averle assaggiate, aveva scoperto che gli piacevano. Avevano un retrogusto dolce e salato, a volte erano lunghe come, scoprì poi nell’adolescenza, agli spermatozoi, o ad una cometa con relativa coda, e come una formica, aveva iniziato a metterle da parte, nascoste in una scatolina di plastica, dentro la scrivania dove riponeva i libri di scuola. Si sentiva anche come uno scoiattolo che mette da parte, per l’inverno, le provviste o per i periodi di “vacche magre” quando le narici non ne producevano abbastanza, andava a prenderne qualcuna nella scatolina, anche se non erano buone, proprio, la frutta congelata, come quelle fresche. Ma aveva imparato ad accontentarsi, sebbene quando possibile, preferiva le primizie.
«Vuoi aprire queesto cazzo di porta? Ho fame. Se non apri subito, vado in camera di Giuda e gli mangio un orecchio» minaccio infuriato.
Gianna sospirò. Era sempre la solita storia. Ogni volta che aveva fame, minacciava di cibarsi del figlio, non tutto, ma solo qualche piccolo pezzo. Anche se fin ora, le sue erano state solo le parole di un padre e un marito premuroso ma iracondo e arrabbiato col mondo.
La donna era tentata ad aprire, ma forse dieci minuti erano pochi, seppure non se la sentiva di tenerlo a stomaco vuoto, specie dopo una lunga giornata di lavoro, anche se lei era più svuotata di lui. Ivano non aveva evacuato un figlio, che sarebbe legalmente nato, tre mesi dopo e nonostante l’amasse quasi di più della sua stessa vita, non poteva capire come lei, come donna, potesse sentirsi.
«Ora ti apro» sospirò. Non voleva rischiare che quella fosse al volta buona per avventarsi sul figlio. D’altronde se l’erano promessi: niente atti di cannibalismo, almeno non nei confronti del figlio o nei confronti dei familiari, diretti o acquisiti fino al quinto grado, e mai contro gli amici stretti.
Gianna accettava compiaciuta le severe lezioni di educazione all’inglese che Ivano impartiva a Giuda. Le piaceva vederlo con la fine bacchetta di legno, quando lo staffilava sulle gambe, o con quella più grossa gli percuoteva la schiena fino a farlo tramortire e sanguinare, ma da buona coppia di genitori moderni, aborrivano le ferite, mutilazioni, percosse che lasciassero segni permanenti o scariche elettriche sui testicoli, come avevano letto usavano fare i soldati americani in Iraq per estorcere informazioni anche a ragazzini con meno di sedici anni. Loro però, erano sfortunati, le leggi italiane erano troppo libertarie nei confronti dei minori, togliendo ai genitori il piacere di educarli, secondo dei sani principi, gli stessi con cui anche Gianna ed Ivano erano cresciuti.
«Vieni a mangiare dai, so che ho fame» lo invitò dopo aver aperto la porta, premunendosi prima però d’avere un oggetto, anche contundente, per fermare eventualmente la furia vendicativa.
Ivano era seduto sul pavimento con le gambe incrociate, come un indiano, sulla soglia della porta. Aveva lo sguardo stranulato e la moglie capì che anche quella sera non era andato giù leggero con la grappa. Sentiva il tanfo del fiato rancido, anche a due metri di distanza. Puzzava peggio di una distilleria. L’uomo, mezzo inebetito, aprì gli occhi e alzò il capo. I due per un lungo istante si fissarono, poi come un pupazzo caricato a molla, saltò in piedi e con uno scatto felino raggiunse la moglie, agguantandola per la gola. La donna non ebbe quasi il tempo di reagire. Era passata, a velocità fulmina, dalla normale respirazione, ad un respiro strozzato che moriva in gola.
«Brutta cagna schifosa che non sei altro! Ti sembra il modo di trattare un uomo che lavora! bagascia dalle tette cadenti che non sei altro!» Esplose alitatanoli in faccia e facendole quasi perdere i sensi. Gli occhi della donna, si chiusero per un breve istante, come a cercare l’ultimo brandello di forze, e a tentoni riuscì ad afferrare il martello in legno con cui frollava la carne. Lo strinse nella mano destra, poi emettendo suoni gutturali, cercò di far capire al marito che le mancava l’aria. L’uomo abbandonò per un breve istante la presa e lei ne approfittò. Si spostò leggermente alla sua sinistra, cercando di trovare un piccolo varco tra lo stipite della porta e infine, attenta nel dosare le forze,gli sferrò il martello sui testicoli.
Gli occhi di Ivano per un istante sembravano due fanali di una metropolitana, tanto era lo stupore, e staccò la presa dal collo della moglie.
«Brutta mignotta che non sei altro, stronza. Mi hai rotto le palle, mi hai frollato il cane!» imprecò, riferendosi alla fava e mettendosi le mani sui testicoli.
Ivana sorrideva. Era l’ennesimo sorriso di vittoria verso quel maschio, buono solo a letto, quando non era ubriaco marcio, per il resto, totalmente inutile.
«Ti sta bene, puzzone. Ora smetti di lamentarti , tra poco la cena sarà pronta. Vati, per favore a fare una doccia, non ti voglio a tavola puzzolente come una carogna» gli intimò la donna, dopo aver capito, che nemmeno quella volta l’aveva colpito mortalmente, anche se spesso si chiedeva perché non lo faceva. La risposta però la conosceva, ed era la più semplice di tutte: la lo amava ed era riamata. A modo loro tutto questo piaceva.
Continua
Marco Bazzato
07.03.2008
http://marco-bazzato.blogspot.com/
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