martedì 11 marzo 2008

Scene dal passato


Aborto terapeutico 6

Erano passati quasi dieci anni da, quando Gianna aveva abortito. Quel giorno,come tanti altri, era stato rimosso. Aveva semplicemente eliminato un’emorroide interna che cresceva in grembo. Ma la perdita più grande che era stata quella di Caino, il rotweiller che amava più dello stesso Giuda, il quale, nonostante le amorevoli cure che gli dedicavano, da tempo aveva preso una piega che non piaceva nemmeno ad Ivano, tant’è che spesso si domandava, se quel sacco di sperma umano solidificato male, fosse veramente suo figlio.

Ci avevano provato in tutti i modi, con le buone, con le cattive, facendoli cambiare aria durante le vacanze estive, ogni anno, fin dalla prima superiore. Nulla, sembrava malato, drogato, come se un demone malvagio si fosse impadronito di lui, conducendolo o guidandolo, peggio di una marionetta tirata da fili, alla degenerazione totale.

I coniugi si erano accapigliati più volte negli ultimi quattro anni, scaricandosi, oltre che una vagonata di schiaffi, pugni, graffi, pestaggi al limite di procurarsi emorragie interne reciproche, curate grazie all’aiuto di un lontano parente di Gianna che aveva comprato la laurea di medicina, alla fine degli anni settanta, pochi mesi dopo il ritrovamento dello statista Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse, senza trovare soluzione al dramma che avevano sempre sperato non si realizzasse. Giuda aveva, per sventura loro, due grandi amori: una ragazza e la religione. Sulla prima potevano, seppur a costo di atroci sofferenze, sorvolare, ma la seconda, la religione, quella no! Si sentivano traditi dalla serpe che avevano inconsciamente allevato in seno: Giuda, il traditore dei loro ideali, delle loro speranze, il bastone della loro vecchiaia, li aveva traditi, crescendo diverso da quello che avrebbero voluto. Lo vedevano come malato, deviato, pervertito senza speranza. Tutto era iniziato, quando gli avevano regalato, all’età di dodici anni, il computer con la connessione ad internet, sperando – che come tutti i ragazzini in pubertà – passasse ore n aavigare su siti porno, chattare, rimanere invischiato in qualche situazione torbida, che scambiasse messaggi anche osceni con uomini o donne non importava; a loro sarebbe bastato sapere che il loro figlio era vivo, non un futuro morto. Ma li aveva buggerati nel modo peggiore.

Nell’appartamento della famiglia Burini, questo era il cognome di Ivano, non c’erano testi religiosi, libri sacri, icone, santini o altre paccottiglie che entrambi consideravano alla stregua di tribali superstizioni africane, ma c’erano in abbondanza videocassette, dvd, libri, fumetti, romanzi porno, per ogni genere di gusto. Dai più raffinati e d’alta qualità, fino a quelli, secondo una bacchettona morale comune, erano considerati una degenerazione, uno stupro dell’uomo e della donna: la zoofilia e la necrofilia.

Era stata Gianna a trovarli. Alcuni film del genere Necrofilia erano stati girati clandestinamente in qualche obitorio, non solo dei paesi del cosiddetto terzo mondo, ma anche provenienti da cosiddetti paesi civilizzati.

Aveva iniziato a parlare di quell’argomento, che Ivano non conosceva, poche settimane dopo che era aveva accompagnato una vicina, nell’obitorio, a riconoscere la salma del figlio deceduto, o come aveva detto Gianna, “frullato peggio di un frappè” in un incidente d’auto. La donna, forse memore delle esperienze di gioventù, che proseguivano ancora, con i cani trovati maciullati lungo le strade, era rientrata entusiasta, quasi febbricitante per l’emozione. Certo, aveva fatto l’ipocrita con l’amica, premunendosi di mettersi un po’ di cipolla sulle dita, prima d’uscire da casa, in modo da farsi lacrimare gli occhi. Questo espediente era stato riferito alla coppia, per sentito dire, da una persona, che tramite un cugino, che lavorava in un ministero, che molti politici, in occasione dei funerali di Stato, avevano l’abitudine di profumarsi le mani di cipolla, per far scendere, arrossando gli occhi, le lacrime.

Non era servito a nulla l’aver la casa piena di cultura, piena di film, fumetti, giornali, riviste, nulla. Il giovane cresceva malato. Anche quando Caino era morto, quello stupido aveva pianto, nonostante il cane oltre ad essere vecchio e quasi cieco, l’avesse azzannato più volte quando il bambino aveva dieci anni. Quello scimunito aveva pianto lacrime vere, non da cipolla, singhiozzava e strillava come un castrato, quando i genitori, avevano deciso di strappargli la testa con la sega da legno, in garage, per impagliarla e metterla, come un trofeo di caccia nella camera del ragazzino. Era stato un taglio difficile, non per il lavoro da fare, ma perché i due adulti erano, lui ubriaco fradicio e lei, era impasticcata, peggio di un adolescente in calore, che per vincere la timidezza dei primi approcci, abbisogna di carburante speciale, mentre Giuda, recalcitrante, non voleva assistere allo spettacolo, era stato preso di forza dal padre, che dopo avergli legato le mani dietro alla schiena, gli mise il collare del cane, assicurato ad una robusta catena, e imbavagliato con il nastro da pacchi.

Ma tutto quell’amore, nei confronti esclusivamente di se stesso, non era bastato. Ogni giorno peggiorava di più, incamminandosi a velocità esponenziale verso un dirupo, un abisso senza fondo, che a suo dire, quando cercò di giustificarsi il giorno che il genitore lo scoprì che al computer, in rete, leggeva siti religiosi, che quello che il padre chiamava devianza, abisso senza fondo, deriva oscurantista, era invece una via di salvezza verso il mondo e verso una luce. Ivano non ebbe dubbi: il figlio era perversamente malato.

L’uomo fu preso da un’ira contenibile, si scagliò contro il figlio, cercando di colpirlo con durezza sulla spina dorsale, ma questi sembrava assistito da qualche demone, riuscendo, e il padre non capì mai come, a scansarsi un attimo primo che il pesante piede dell’uomo, si abbattesse, come una furia distruttrice, sulla colonna vertebrale del figlio spezzandola. Ivano cadde a terra imprecando. Le urla sconnesse richiamarono l’attenzione di Gianna, che appena entrò nella stanza fu colpita al sopraciglio, lacerandolo, dalla scarpa che il marito aveva raccattato a terra, durante la caduta e che apparteneva al figlio.

La moglie quasi svenne per l’improvvisa scudisciata di dolore e per il sangue che usciva copiosamente da sotto la fronte; qualche centimetro più in giù e l’avrebbe orbata ad un occhio, ma Ivano non se ne curò. Era troppo preso dal dolore morale, come genitore ferito nell’animo, per rendersi conto delle condizioni della moglie. Si sollevò da terra, mentre il ragazzo se ne stava accucciato su un angolo, come un animale impaurito, e si slacciò la cintura dei pantaloni.

«Togliti la maglietta!» gridò con quanto fiato aveva in gola. «Toglietela subito, brutto malato mentale, pervertito maiale che non sei altro, altrimenti quello che ho intenzione di farti, non sarà nulla rispetto a quello che ti farò se non ubbidisci. Subito!».

Gianna, nonostante il dolore ed il sangue che continuava ad uscire, sorrideva. Non capiva perché, ma si sentiva attratta da quella sua animalità primitiva, a quel suo modo di gridare, soprattutto, quando era in preda dei fumi dell’alcol. Aveva come l’impressione, nonostante fossero passati quasi vent’anni dal giorno che si erano sposati civilmente, perché doveva avvallare le rate de mutuo per l’appartamento, che Ivano ave va acquistato, e il fisico si era appesantito e invecchiato, come il suo del resto, che fosse immortale, che dentro di lui si muovesse un qualcosa di sconosciuto, primordiale, una personalità che sapeva trarre dall’orrore e dall’ira, una sconosciuta forza rigenerativa, una forza che l’aveva affascinata sin dal loro primo incontro casuale, una sera, lungo una statale poco illuminata.

Era appena stata scaricata da un conoscente, almeno così aveva detto a quel giovane dalle maniere rudi che aveva accostato l’auto, chiedendole se avesse bisogno di un passaggio. Gianna, nonostante la poca luce l’aveva scrutato con attenzione. Era magro, quasi come un chiodo,non troppo alto e aveva due profondi occhi neri infossati nelle orbite. Sembrava quasi n gufo, un animale notturno, un rapace che non può vivere alla luce del sole. Ma quello che l’aveva colpita sopratutto era l’odore Era quasi come un tanfo di un animale selvatico, rinchiuso in quella gabbia di ferro, come l’auto ad esempio, che nonostante non fosse eccessivamente alto, faticava a contenerlo. Lo aveva immaginato subito come un protettore, come un caprone salvifico, un signore della notte, che avrebbe forse potuto offrirle un futuro diverso, radioso. E così avvenne.

Ivano aveva la bocca che schiumava di rabbia. Sembrava un cane idrofobo, pronto ad azzannare, ma il figlio dopo essersi allontanato dal muro, si stava togliendo la maglietta. Sapeva cosa lo attendeva per l’ennesima volta, e spalancando gli enormi occhi nero bovini,secondo il padre, si preparò ad essere educato, quelle erano le parole che usava l’uomo, quando doveva punirlo per qualche malefatta.

«Sei un vile!» sentenziò l’uomo stringendo la cintura in cuoio, facendo cadere a terra l’estremità dov’era attaccata la fibbia.

«Dove la preferisci questa volta? Sulle reni? Sui coglioni che ti mancano, visto che sembri solo figlio di quella vacca lì!» disse indicando la moglie che li osservava, sognate.

«O sulla schiena?» terminò facendo sibilare la cintura nell’aria a pochi centimetri dal volto del ragazzo.

«Dove vuoi tu, padre. Sia fatta la tua volontà, non la mia» biascicò schivando il proiettile d’ottone e cuoio che li sibilò a pochi centimetri dal mento.

«La mia volontà, sarebbe quella di farti a pezzi, ammazzarti e darti in pasto a Caino, se quel povero diavolo fosse ancora vivo» gli rispose, indicando la testa del cane, malamente impagliata, posta dalla madre, e mai toccata dal ragazzo, nemmeno fosse un escremento o chissà, secondo il suo fine palato, un oggetto indegno da toccare.

«Eppure, brutto traditore che non sei altro, ti abbiamo dato tutto. Un’educazione diversa e migliore rispetto ai tuoi amici. H Hai una casa, dei genitori che ti amano, che ti vogliono bene, ma tu te ne freghi del nostro dolore. Pensi al tuo dio, al tuo fottuto dio, che credi possa darti una felicità nuova, vero?» Sputò fuori tutto d’un fiato l’uomo, mentalmente stremato dal dolore che non lo abbandonava.

«In questo mondo non esiste la felicità, in questo mondo, per me, esistete voi, che non siete la felicità. Questa esiste solo nell’altro mondo, nell’aldilà» rispose Samuele senza un minino di paura nella voce.

«Lo senti? Lo senti quest’idiota come parla? Ma che cazzo avevi, vacca, in quelle mammelle bovine quando l’hai svezzato, merda?» Domandò alla moglie che nel frattempo era riuscita a scovare in una tasca un fazzoletto ciposo di Ivano e stava cercando di togliersi il sangue raffermo.

«Che ti devo dire? Educalo, no? Sei tu il padre, o sbaglio…» rispose la donna, beffardamente.

«Lo spero, mi romperebbe aver dato da mangiare ad un traditore maledetto, che a questo punto non essendo mio figlio intellettivo, non potrebbe essere, perché forse aprivi le gambe ad ogni ingrifato che ti capitava a tiro, nemmeno mio figlio naturale e potresti avermelo evacuato sul groppone, e ora tocca a me finire il lavoro, che avrebbe dovuto toccare ad un maledetto medico abortista!» disse Ivano quasi senza nemmeno prendere fiato.

«Allora, devo aspettare ancora molto lo spettacolo?» lo sbeffeggiò la moglie.

«A terra a pancia il giù, animale!» Intimò al figlio che obbedì senza fiatare.

La cintura saettò nell’aria e colpì la schiena di Samuele. Il ragazzo emise un grido strozzato, morsicandosi la lingua, che gli impastò la bocca di sangue. Il padre, incurante del dolore del figlio,riprese a colpirlo. La fibbia scava pesanti solchi sulla pelle del rgiovinastro, sanguinando dalle ferite. Ivano sorrise. Gli sembrava d’essere vicino un porco che stava per essere scannato.

Il padre gli affibbiò una decina di frustate. Samuele, dopo il primo grido iniziale, svenne, ma l’uomo se ne accorse e quando sentì il braccio stanco, lasciò cadere a terra la cintura, prima però gli sputò in faccia e poi lo scalciò scagliò sulla coscia destra, e mentre usciva dalla stanza, si rivolse alla moglie dicendole: «Chiama quell’idiota del tuo parente. Dille che c’è un porco mezzo scannato in casa, ma che non è ancora pronto per essere macellato del tutto».

La moglie, annuendo gli fece spazio e poi lo seguì in bagno. Il marito, dopo aver faticato con tanta intensità meritava un buon bagno rilassante, ricco d’aromi profumati. Il dottore l’avrebbe chiamato più tardi, – e mentre la vasca si riempiva d’acqua calda, tornò nella camera del figlio, ancora esanime, gli versò sulle ferite della grappa scadente per disinfettarlo – o il giorno seguente. Tanto il piccolo bastardo per i prossimi giorni, a fatica sarebbe riuscito a fare qualche passo, figurarsi uscire di casa. Doveva pensare alla nuova scusa per giustificare l’ennesima lunga assenza, ma doveva essere più creativa. Aveva la sensazione che forse questa volta non avrebbero mangiato la foglia facilmente come in passato.


Continua…

Marco Bazzato

11.03.2008

1 commento:

  1. Certo che lei sa sempre essere più idiota ogni articolo che posta.

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