Inizio…
Precedente…
«Da bambino, Samuele non era così». Diceva Ivano mentre Gianna insaponava la schiena del marito. Era ubbidiente, attento, anche se entrambi convenivano che era estremamente debole di stomaco. Facile al rigetto, come se qualcosa dentro quella piccola testolina ricoperta di riccioli neri, non funzionasse a dovere.
«Ti ricordi, quando per la prima volta gli abbiamo fatto vedere come si prepara la carne?» domandò il marito.
«Certo. Forse è stato lì che ha iniziato a dare i primi segni di squilibrio, ma non c’e ne siamo accorti. Avremmo dovuto portarlo dal medico» sospirò Gianna, figurandosi nuovamente la scena del piccolo di otto anni che sveniva, come una mammoletta, a terra.
«Che cazzo dici? Voi che ti affoghi, cretina che non sei altro. Secondo te, avremmo dovuto gettare via dei soldi, solo perché quel foruncolo non sopportava che tu affettassi qualche meicetto o cagonolino? Sei tutta scema, sai».
Gianna sospirò, ricordando quel giorno. Il piccolo Giuda si era attaccato alla coscia come un cane in calore che simula il coito muovendo il bacino, aggrappandosi con le zampe anteriori sull’arto. La donna, indaffarata per la preparazione della cena, se lo scrollò come fosse una zecca che vuole succhiarle il sangue dai capezzoli, e il piccolo, sballottato, cadde a terra, battendo la testa sul pavimento.
«Ti sta bene, cimice che non sei altro. Così impari ad ascoltarmi, quando ti ordino qualcosa!».
Il piccolo si sollevò dal pavimento, tenendosi le manine dietro la nuca per il dolore, ma la madre non lo degnò di uno sguardo. Prese il cestino di vimini lasciato nel terrazzo dell’appartamento e lo portò in cucina. Dall’interno si udivano i miagoli dei gattini randagi, di pochi mesi, che il marito raccoglieva per strada, l’abbaiare affamato di bastardini regalati al marito da un compagno di lavoro che non sapeva che farsene e al corrente dei gusti del collega, perché in più di un occasione, era stato partecipe involontario.
La donna, prese un micetto e un cucciolo per le collottole. Li tolse dal cesto, deponendoli sul ripiano di marmo della cucina. Gli animali, questi maledetti, non avevano messo un istante di miagolare ed abbaiare, come se quei piccoli sacchi di pulci sapessero in anticipo il destino che li attendeva.
Samuele, dopo essersi ripreso dal dolore alla nuca, osservava la madre, sebbene non riuscisse a capire cosa avesse in mente.
«Pronto per lo spettacolo?»
Samuele, iniziò a capire le intenzioni della madre, scoppiò nuovamente a piangere. La donna, che teneva nella mano destra il coltello da macellaio, lo mise sul tavolo, perché era troppo forte la tentazione di tagliare in due, come un’anguria matura, la testa del figlio, ma si fermò, perché le sarebbe costato giorni di lavoro, per ripulire gli schizzi e le macchie di sangue che avrebbero sporcato la cucina sempre linda.
Non aveva voglia di perdere tempo, ma non poteva lasciare che il piccolo, le frantumasse i timpani con grida stridule, che avrebbero potuto farla impazzire. Prese il gomitolo di spago da pacchi, buono per tutte le stagioni, e dopo averne tagliato un pezzo lungo almeno tre metri, ad un’estremità ci fece un piccolo nodo scorsoio, e a mo di lazo legò, dietro la schiena, i polsi del piccolo, sbuffando per il tempo che perdeva, prese un fazzoletto e glielo legò sulla bocca. Almeno avrebbe guardato senza far rumore o scalciare.
«Finalmente un po’ di tranquillità» Esclamò prendendo da un cassetto il martello di metallo che usava per frollare la carne, e avvicinandosi al gattino, dopo aver attirato la sua attenzione, lo distese di pancia sul piano di lavoro, e con un colpo secco sferrò due martellate sulle zampe posteriori,di quegli esseri pidocchiosi e maligni. Il gattino emise dei suoni, per l’udito di Gianna, musicali. Sentiva che soffriva in modo terribile, ma questo la eccitava, rendendola ancora più remissiva all’autoerotismo, che se non fosse stata in ritardo, avrebbe praticato, distesa a terra, con la gonna e la maglietta sollevata, davanti al figlio.
Ma non poteva perdersi in fantasie erotiche, quelle era buone come merendina pomeridiana, come pausa quando rammendava qualche panatalone rotto, o riattaccava un bottone di una camicia, ma non in quel momento. Tra poco sarebbe rientrato il marito, e come sempre, poverino, avrebbe staccato un orecchio al figlio, a morsi, tanto era il bisogno di cibo che lo divorava.
Lasciò il micetto che piangeva per le zampine spezzate, e si occupò del bastardino che se ne stava accucciato vicino al gatto, cercando forse, leccandogli il musetto, di rincuorarlo, ma questi non sentiva. In certi momenti, pensava tra se Gianna, aveva la sensazione o che fosse morto, o che avesse perduto i sensi.
«Vieni qui, piccolo sacco di pulci che non sei altro, vieni qui!» diceva con voce mielosa la donna al cucciolo, che spaventato, non voleva sentirne di avvicinarsi, e faceva di tutto per allontanarsi, come se se quel vigliacco volesse scappare.
«Brutto bastardo che non sei altro. Credi di fare il furbo? Ma sei una semplice bestia, mentre io sono una persona intelligente, maledetto cagnaccio!» Mentre diceva questo, riprendendo il martello frolla carne, bloccò l’animale e gli sferrò una martellata, non sulle zampe, come col gattino, ma direttamente sulla testa. Il cane, violentemente colpito, emise un ultimo guaito, e stramazzò morto.
«Finalmente! Ora preparo la pappa per Caino, e poi la cena per Ivano» si disse quasi sottovoce, iniziando a fischiettare il motivetto di Candy Candy, la stupida orfanella americana, dalla lacrima facile.
Riprese il coltellaccio da macellaio, prese il ricetto, gli accarezzò la schiena e questi, nonostante il dolore alle zampe, fece le fusa. La donna sollevò il braccio destro al cielo, impugnando il coltello, fendette l’aria e la lama – precisa – si conficcò nel collo del gatto, segandolo di netto, ed emettendo uno schizzo di sangue che le imbrattò la mano. L’animale schiattò sul colpo. Gianna ripetè l’operazione con le zampe, prima quelle posteriori, e poi quelle anteriori. Fatto questo, si premunì di fare lo stesso servizio al cane.
Aveva la fronte imperlata di sudore, e un leggero brontolio di stomaco stava facendo capolino in lei. La vista di quei pezzi di carne succulenti, le aveva mosso i succhi gastrici, che già pregustavano l’aroma di carne bollita, arricchita con aromi e spezie.
Era stato Ivano ad insegnarle a cucinare carne di cane e gatto, assieme. Per il cane, il futuro marito aveva imparato ad apprezzarne il sapore da alcuni conoscenti coreani e vietnamiti, dove sembrava che questi ultimi fossero figli di profughi, fuggiti da Saigon dopo che gli americani avevano lasciato il Vietnam, a seguito della caduta dell’ambasciata americana, nel 1975,da parte di Charilie, così erano chiamati dai soldati americani, i nemici vietnamiti.
Per la carne di gatto, la cosa era un po’ più semplice. Ivano, che per un certo tempo aveva lavorato nella zona di Vicenza, come facchino, aveva conosciuto la carne e la zuppa di gatto, in un’osteria che la spacciava per coniglio. Molti clienti, soprattutto stranieri, provenienti da fuori città, forestieri, secondo l’uso locale, quando seppero d’essersi cibati degli animali sacri ai Faraoni Egiziani, avrebbero desiderato, dopo aver vomitato copiosamente, linciare i padroni, che però da scafati taccagni, con anni d’esperienza alle spalle nel settore della ristorazione “alternativa” tenevano sotto il bancone mazze da baseball, e una vecchia Glok, residuato bellico della seconda guerra mondiale. Ivano invece aveva apprezzato, perché se avesse appreso il modo di prepararlo, poi procurarsela non sarebbe stato un problema. Il suo unico cruccio semmai, era quello d’imparare a cucinarlo bene. e se avrebbe mai trovato una donna, con la ferrea volontà d’imparare un arte che stava per essere dimenticata, perché uccisa dai quei barboni degli animalisti, da quegli esseri abietti delle varie leghe antivisezione, da quei cialtroni che badavano più all’integrità psicologica di qualche animale pulcioso, che non all’interesse familiare di far quadrare i magri bilanci domestici.
La donna prese i tronchi dei due animali e dopo averli stesi sul tavoliere a pancia in su, prima aprì il ventre ad entrambi, poi gli scuoio. Tolse le interiora, che avrebbe dato a Caino, assieme alle zampe e le teste, e gettò la carne sul pentolone, dove l’acqua aveva iniziato a bollire. Era necessario ammorbidirla, per far perdere quel retrogusto di selvatico, quel sapore duro e legnoso, che ai più, dava fastidio e che non permetteva d’apprezzarne il sapore nella sua interezza.
«Vedi Samuele» iniziò la madre, con una strana dolcezza nel tono di voce. «Le persone sono stupide, sai. Questi credono perché si hanno animali da compagnia, come Caino, che poi non ci si possa cibare di loro. Ma se ci pensi, il porco lo si mangia da sempre. Galline, mucche, vitelli, cinghiali, o quant’altro. Solo cani e gatti, nella stupida mentalità italiana, sono considerati sacri». Concluse Gianna, mentre il figlio la fissava con gli occhi colmi di lacrime, impossibilitato a risponderle per via del fazzoletto sulle labbra.
«Stupido che non sei altro. Non diventerai mai come tuo padre, di questo, credo che in futuro saremmo costretti a prendere provvedenti». Terminò andando a slegarlo, per trascinarlo, per un orecchio, in camera sua, dove ci sarebbe rimasto fino l’ora di cena, naturalmente chiuso a chiave.
Il giovanotto tornò a scuola quindici giorni dopo. Le ferite alla schiena, dopo esser state parzialmente disinfettate con della grappa scadente dalla madre, la sera stessa, furono ricontrollate dall’amico medico, il quale riuscì, dopo aver gettato via circa una trentina di metri di bende, a fare una fasciatura abbastanza decente, avendoprima ripulito nuovamente la schiena del ragazzo con la tintura di iodio.
«Tranquillo, figliolo» disse l’uomo dall’alito puzzante di vino scadente. «Dieci giorni di riposo, e non si vedranno nemmeno le cicatrici. Tuo padre, secondo me, questa volta è stato troppo buono!» esclamò gettando il resto delle bende e la boccetta di tintura di iodio in una borsetta di nylon, alzandosi così dal letto, per andare in cucina a farsi offrire un bicchiere di vino. Il decimo, da quando quella mattina era arrivato, a stomaco vuoto.
Samuele tornò a scuola. Le ferite si erano rimarginate, anche se la paura questa volta, a differenza delle altre non era sparita subito come al solito. Se fino a quindici giorni fa, i genitori, nonostante le loro stranezze, le loro violenze reciproche, le grida, l’alcol e la droga, quella sera avevano superato il limite, infatti se non si fosse sposato all’ultimo istante, a quell’ora sarebbe sicuramente ricoverato in ospedale, con la schiena spezzata in due, oppure morto.
Capiva che quei due, ai quali in teoria, doveva la sua esistenza, si stavano incamminando sempre di più in un tunnel senza uscita, in una strada chiusa, che li avrebbe portati forse a cozzare, non tanto contro i muri delle loro coscienze, se mai ne avessero almeno una in due, ma contro il muro della vita stessa.
Ci era passato sopra a molte cose, praticamente a tutto. Si era lasciato picchiare, sputare addosso, sodomizzare sconosciuti, a cui era stato offerto, dietro pagamento come se fosse un oggetto sessuale. Aveva accettato, o meglio subito di tutto e negli ultimi due anni, comportamenti dei genitori si erano mossi in un crescendo, che sembrava senza fine.
«Non voglio un figlio eterosessuale! Lo vuoi capire, razza di animale!» gli gridò la sera stessa quando scoprì, rivoltando i cassetti della sua stanza, i alcune lettere che Samuele e Mariangela si erano scambiati a scuola.
«Te lo avevo detto no?» riprese passandogli il pugno a fil di naso. «Tu devi andare solo con persone del tuo stesso sesso. Ma cosa credi, che ti abbiamo messo al mondo perché tu ti vada ad accoppiare, per poi mettere al mondo, degli altri bastardi come te?» gli gridò in faccia, mentre il ragazzo se ne stava immobile ed impaurito, incollato alla sedia.
«Hai finito di far la bella vita alle nostre spalle. Eccome se hai finito. Ora ci penso io! Vacca!» grido alla m moglie che se ne stava seduta sulla poltrona del salotto a gambe divaricate, senza slip, come una Sharon Stone obesa in un Basic Istinct senile, sniffando da una bottiglietta l’acetone: lo smalto da unghie.
Gianna sbuffando, dopo aver chiuso le cosce, si alzò dal divano, e si diresse nel ripostiglio, dove prese una valigia da viaggio. Sapeva dove il marito avrebbe condotto quel malato terminale. Ne avevano parlato molte settimane prima, quando avevano iniziato ad avere il sentore che questi si stesse prendendo gioco di loro.
Giuda fu condotto la sera stessa, nella comunità omosessuale “Amore infecondo e sesso senza fine” diretta da un travestito milanese, amico di Gianna, che come lei, prima di conoscere i marito, aveva condiviso lo stesso marciapiede, che in virtù dei diversi servizi offerti, non erano mai stati in concorrenza, ma sapevano di poter contare, in qualsiasi momento d’una spala reciproca, onde sfogarsi.
«Ciao Veridiana!» disse Gianna uscendo dall’auto, e attendendo che il marito, aprisse il bagagliaio, dove aveva rinchiuso il figlio, lasciandolo uscire. «Ti abbiamo portato questo coso qua» indicò la madre, spingendo il figlio verso “la donna” vestita di Hermes, con ai piedi un paio di mocassini, numero 44, di Gucci.
«Cos’ha combinato?» tuonò Veridiana, il cui nome di battesimo era Carlo, detto Carlino dalla madre, Giacobelli.
«Secondo me e mio marito, è malato. Gli piacciono le donne. Ivano ha trovato delle lettere compromettenti, e come sai, ne io e ne lui, vogliamo che vada a donne, anzi che si innamori di una donna…» sospirò Gianna, guardando quel traditore del figlio come se fosse affetto da una rara malattia infettiva.
«…E vorresti che noi, qui, lo rieducassimo…vero?» domandò prendendo Samuele per i capelli, tirandoselo a se.
«Ve lo lasciamo una settimana. Fatene quello che volete. A noi basta che ce lo ridate guarito». Grugnì Ivano, seccato da quell’escremento chiamato persona che aveva per figlio.
Samuele rimase nella c
Era stato costretto ad essere nudo, per tutti i due mesi. Non aveva diritto ad alcun tipo di intimità, quegli erano gli ordini dei genitori, seguiti scrupolosamente, dopo aver pagato Verdiana profumatamente. Ogni notte era stato costretto a condividere l’enorme letto a tre piazze, ogni notte con persone diverse.
Quando fu ripreso dai genitori, non parlò per quasi un mese. Era come diventato catatonico, rinchiudendosi in un mondo tutto suo, estraniandosi dalla realtà che lo coinvolgeva. Aveva persona decina di chili e sembrava l’ombra di se stesso. Davanti agli occhi, e nel cuore, nascosto in un angolo buio ed inaccessibile aveva conservato il ricordo di Mariangela, la compagna di classe con cui si cambiava delicati bigliettini e lettere, cariche di promesse future ed affetto.
Durante quei giorni aveva scoperto, oppure cercato dentro di se, visto che non era stato educato, che forse esisteva un entità suprema, superiore, che vegliava su di lui, dandogli forza e coraggio d’andare avanti. Spesso,mentre altri erano occupati con cose indicibili ed inenarrabili sul suo giovane corpo, si era rivolto a Lui, che seppur non gli rispondeva, aveva la sensazione che comunque ascoltasse le sue preghiere, invocazioni e suppliche.
Tornato a casa, era stato rinchiuso in camera, sino al giorno della ripresa delle scuole, col cibo razionato al minimo indispensabile per la sopravvivenza, e senza la possibilità sia di guardarsi allo specchio, sia di lavarsi, e però scoprì che i genitori, lo avevano cambiato d’istituto. Non volevano che s’incontrasse nuovamente, con quella che per loro era considerata una sciagurata rovina famiglie.
Continua
Marco Bazzato
12.03.2008
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