lunedì 14 agosto 2006

I necessari compromessi tra stato di diritto e sicurezza: un editoriale di Angelo Panebianco


Facciamo un ipotesi, di fantasia ma non proprio del tutto implausibile. Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che l'Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli attacchi dell'undici settembre, con migliaia e migliaia di vittime innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione, estorta dai servizi segreti anglo-americani tramite tortura, di un jahadista coinvolto nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato) illegalmente. Chi se la sentirebbe in Occidente di condannare quei torturatori? La risposta è: un gran numero di persone. In Italia più che altrove.La cosa interessante è che a emettere sentenze di condanna senza nemmeno riconoscere l'esistenza di un «dilemma etico» nella vicenda in questione non ci sarebbero solo quelli che Giuliano Ferrara sul Foglio ha definito gli appartenenti al «nemico interno» (il quale esiste, eccome), alleato di fatto del terrorismo jahadista. No, fra coloro che condannerebbero i torturatori senza dubbi né tentennamenti ci sarebbero anche tante brave persone in buona fede che hanno orrore del terrorismo ma che credono che cose come la legalità, i diritti umani e quello che chiamano (in genere, senza sapere bene cosa sia) lo «stato di diritto» debbano sempre avere la precedenza su tutto: anche sulla salvezza di migliaia di vite umane.Come si spiega che in Italia più che altrove sia venuta totalmente meno l'idea (che però resiste in altri Paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, alla Francia) che la convivenza democratica possa poggiare solo su un compromesso, precario quanto si vuole, ma pur sempre un compromesso, fra stato di diritto e sicurezza nazionale? La spiegazione deve mettere in gioco vari elementi. C'è in primo luogo il lunghissimo periodo di pace che abbiamo alle spalle. Quella fortunata età dell'oro che è stata la lunga pace post '45 ha reso un gran numero di persone, soprattutto quelle nate dopo la Seconda guerra mondiale, incapace persino di mettere a fuoco l'idea di «nemico», il nemico vero, assoluto, quello che ti ucciderà se non riuscirai a neutralizzarlo. Per queste persone, la guerra è un fenomeno letteralmente incomprensibile. Ciò le rende disponibili a credere che la guerra dichiarata all'Occidente dal terrorismo jahadista possa essere affrontata con gli stessi strumenti con cui ci si difende dai ladri di polli o dai rapinatori di banche.La seconda ragione ha a che fare con la vicenda italiana recente. La caduta dell'Urss e la successiva vicenda di Mani pulite determinarono in molte persone, all'inizio degli anni 90, una singolare metamorfosi: esse passarono, senza soluzione di continuità, dagli ammiccamenti per la Rivoluzione (fra tutti gli eventi, il più «illegale» che si possa immaginare) alla apologia della «legalità». Da bravi neofiti costoro hanno trasformato lo «stato di diritto» in una specie di feticcio davanti a cui ci si dovrebbe solo inchinare acriticamente.Nessuno ha spiegato loro che lo stato di diritto è solo uno strumento, altamente imperfetto, che serve a regolare i rapporti entro la comunità democratica in condizioni di normalità. Uno strumento che fallisce quando scatta l'emergenza, quando qualcuno ti dichiara guerra. Sono questi neofiti che, se uno osa dire che dalla guerra, anche quella asimmetrica, non ci si può difendere con mezzi legali ordinari, gli spiegano subito con sussiego che se la democrazia non rispetta rigorosamente la «legalità» diventa come i terroristi la vogliono. Dimenticando che i principi vanno sempre adattati alle situazioni e che servono solo se si resta vivi.A differenza dei neofiti della legalità, i liberali di antica data hanno sempre saputo che lo stato di diritto deve convivere, se si vuole sopravvivere, con le esigenze della sicurezza nazionale. Il che significa che si deve accettare per forza un compromesso, riconoscere che, quando è in gioco la sopravvivenza della comunità (a cominciare dalla vita dei suoi membri), deve essere ammessa l'esistenza di una «zona grigia», a cavallo tra legalità e illegalità, dove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi. I neofiti della legalità non lo capiranno mai ma questo compromesso è anche l'unica cosa che, in condizioni di emergenza, possa salvare lo stato di diritto e la stessa democrazia. Perché quando arrivano le bombe, quando le strade si tingono di sangue, o ci affida a quel tacito compromesso oppure si deve scontare l'inevitabile reazione che porterà, prima o poi, dritto filato verso soluzioni autoritarie. Le democrazie più salde e consolidate ne sono consapevoli e per questo difendono quel compromesso. Il rischio è che una malintesa, fondamentalista, visione della legalità ci porti ad abbassare drammaticamente le difese, per esempio a isolare i nostri addetti alla sicurezza dal resto dei servizi segreti occidentali, perdendo così l'input più prezioso nella guerra simmetrica contro il terrorismo: le informazioni.Una classe dirigente degna di questo nome non può fare finta di nulla. È assolutamente necessario, come dimostrano anche i contraccolpi dell'inchiesta giudiziaria sul sequestro di Abu Omar, che un confronto tra politica, operatori del diritto (magistrati, avvocati) e operatori della sicurezza abbia luogo. Per ricostituire quel compromesso tra stato di diritto e sicurezza nazionale che in Italia, proprio in uno dei momenti più cupi e pericolosi della storia recente dell'Occidente, è venuto meno. È un'esigenza vitale. Letteralmente.
L?editorialista forse vuole un ipotetico allontanamento dell?Italia e dei i suoi cittadini dall?ONU, trasformando in carta straccia la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, istigando teoricamente la fuoriuscita del Paese dalla legalità internazionale? Dovrebbe però anche spiegare ai lettori cosa comporterebbe a livello internarnazionale un simile evento e le ripercussioni economiche e politiche che ciò comporterebbe. Dovrebbe altresì chiedersi se gli Italiani sono così sprovveduti e ingenui, (neofiti) e quindi hanno bisogno di indicazioni nefaste per saper distiguere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per loro e per il Paese.
Il tempo del popolo bue è finito, ma qualcuno non se ne è accorto.
Stiamo arrivando all?invito mascherato malamente di instigazione ad un regime autoritario?
La legislazione internazionale
"Nessun individuo sarà sottoposto a tortura o a trattamenti o a punizioni crudeli inumane o degradanti"(art.5 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani)
La tortura è proibita dalla Convenzione contro la tortura ed altri trattamenti o punizioni crudeli inumane o degradanti delle Nazioni Unite, del 1984. La Convenzione stabilisce che la tortura è un crimine che ha giurisdizione internazionale. Ciò significa che ogni Stato può - anzi dovrebbe - procedere contro gli autori di questo crimine indipendentemente dal paese in cui è stato compiuto e dalla nazionalità sia degli esecutori che delle vittime. La tortura dei minori è vietata anche dagli articoli 34, 37 e 38 della Convenzioni sui diritti dell?infanzia del 1989 delle Nazioni Unite.

Marco Bazzato
14.082006

Fonte Corriere della Sera
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