lunedì 6 ottobre 2008

Leni Danarova e Arida Capotekrava e l’oscurità dell’esistere






C’era una volta, o c’è oggi, ma domani non si sa ce ci sarà – come tutti del resto, in quanto dalla vita se n’esce solamente morti – in un Paese lontano, una piccola donna rotondetta, quasi grassa od obesa – dipende dai punti di vista – oggi forse sulla cinquantina, con gli occhialetti con montatura marrone, simile, come colore a quello di una “boassa” di vacca stitica, mioope e dala falcata minuta, che fa tanto Enrico Cuccia, l’ex presidente di Mediobanca, scomparso da tempo.
La signora si è laureata – al tempo del socialismo reale – nella più rinoma
ta Università dei Balcani, prima della caduta del Muro di Berlino, quando non contava non la bravura, ma la “Fedeltà alla Causa”, al partito, ma principalmente se aiutate dal cognome paterno, reduci della seconda guerra mondiale, che in quelli anni si aprivano, grazie a legali corsie preferenziali, strade e carriere immeritate.

Oggi Leni Danarova è una donna soddisfatta, felice del suo ruolo, del posto nel mondo accademico, serena perché pensa di saper insegnare – come una bulletta del Rione Santità pluriripetente, urlante ma omertosa – le regole della grammatica straniera in cui si crede Regina assoluta ed incontrastata, dove dall’alto della cattedra può catechizzare ideologicamente i poveri sudditi universitari, che vorrebbero apprendere di più della lingua straniera ma, pena sguardi biechi di riprovazione, sono costretti solo a prendere appunti, tacendo, senza fare domande, perché forse probabilmente se fatte fuori dal quel poco di in seminato e germogliato in testa , gli studenti riceverebbero deplorevoli silenzi.

Leni si limita ad entrare in classe, appoggiando sul pavimento la pesante borsa, dove tiene gelosamente nascoste, ma imparate a memoria, ogni singola lezione, e inizia a pontificare, educando.
Leni parla, ma non ascolta, guarda,
ma non osserva, vede, ma non memorizza. Tutto attorno a lei sembra sfocato e indistinto, col mondo che passa alla velocità di un Eurostar in viaggio verso uno schianto mortale, verso un deragliamento figlio dell’imperizia, verso un’ultima stazione, dove l’unica vita d’uscita certa è la morte. Morte non genera altro che pianto e stridor di denti, lamiere accartocciate, vetri infranti e corpi smembrati.
Leni insegna quasi rabbiosamente, con un tono di voce basso, modulato come una Sirena portatrice d’eventi nefasti, visto che nel suo Paese la bassa voce significa rabbia e minacce, perché ha paura. Ha paura, che un domani, non troppo lontano, gli studenti, fatte adeguate esperienze,fuggiti al suo macchiavelico controllo, possano imparare a ragionare con le loro teste, capendo che tanto forse è stato detto, ma poco gli è stato spiegato, perché costei vorrebbe eternamente essere – manco fosse una divinità eterna – la ferrea detentrice del sapere, negando che alla fine, come per tutti, l’ultima sua dimora, sarà nella “collina degli stivali”.

Gli studenti basiti tacciono. In quelle giovani menti, desiderose di sapienza giungono, come gli echi d’una battaglia campale della I guerra mondiale, i colpi di mortaio e cannone sparati dalla voce stridula di Leni che vorrebbe, prima, farsi udire da se stessa, provando a sentire quel richiamo bambino, ucciso dalla storia, schiacciata con orgoglio dal peso di una dittatura che a suo tempo la vedeva gaiamente in prima linea, e fiera verso il “Luminoso Futuro Socialista”, col braccio irrigidito sul tronco e la mano destra al cuore, cantando a squarciagola, come una campana col batacchio malformato e stonato, l’inno nazionale, all’annuale parata militare, urlante e decantante le lodi delle sconfitte fasciste.
Gli anni trascorsero, alla velocità di un film muto di Buster Keaton. Gli universitari passavano sotto i suoi occhi e sgrinfie, cambiando. Mentre le giovani e fresche menti erano sostituite da nuove generazioni d’universitari, lei come una cariatide – semestre dopo semestre, anno dopo anno, decennio dopo decennio – sempre più incartapecorita, rimaneva.

Rimaneva integerrima, come il soldato giapponese, il quale non sapendo che la II Guerra Mondiale era terminata da sessantanni, resta suo posto, sull’avamposto in un’isola sperduta del Pacifico, non segnata nemmeno sulle mappe di navigazione.

Gli studenti passavano come meteore che si disintegrarono all’ingresso nell’atmosfera, trasformandosi in scie luminose, stelle cadenti e morenti, scavanti minuscoli crateri nel terreno; come in una specie di selezione darwiniana, solo i più resistenti sopravvivevano alla furia devastatrice del suo indottrinamento.
Solo gli universitari più scaltri, prevalentemente “femmine”, col pelo sullo stomaco come “La donna scimmia”, sebbene non con la preparazione migliore, riuscivano ad entrare nelle sue grazie, ma a patto che si rimettessero in modo completo e totale al suo volere, firmando un patto di sangue con Satana, Signore delle Mosche e delle anime perdute.

Leni sapeva tutto, insegnava tutto: grammatica, filologia, etnocultura, ma soprattutto teoria della traduzione. Insegnava con la forza bruta di un bulldog randagio, risultante per deficit mentale, mal addestrato, senza aver per anni tradotto un libro. Eppure si reputava una recensente scafata del lavoro altrui, senza averne mai affrontato le difficoltà. Ma l’atrocità più nefasta era che insegnava agli studenti come tradurre, dando ogni genere degenere di cognizioni teoriche, o testi da elaborare da un linguaggio arcaico ad un linguaggio contemporaneo, salvo poi, forse in futuro, farne qualche libro, impossessandosi del lavoro altrui, affibbiandoci il suo nome in bella vista.

Poi un bel giorno di un passato lontano, è arrivata la prima traduzione, il primo libro. Un libro di un Capo di uno Stato teocratico straniero, e per riconoscenza verso quel dio che ne negava l’esistenza, provò ad elevare una preghiera al cielo, ma non conoscendone una – in quanto il suo Dio socialista imponeva l’ateistica ignoranza religiosa, ma indottrinata ai sacri testi di Stalin e Mao, ma provò a pregare, durante un temporale della Madonna, dove tuoni rombavano in cielo e i fulmini si scaricavano a terra. Poi finalmente le sue “preghiere” furono esaudite, in modo misterioso dal Cielo, e un chicco di grandine, grande come un limone, la colpì al capo, facendola stramazzare sul marciapiede, dove rimase per ore. E il mondo, per alcuni minuti, sempre troppo brevi, ebbe pace e silenzio.

Ad un certo punto il Muro cadde e il mondo cambiò. In quella parte d’Europa, per anni dimenticata dall’occidente, si era affacciata una nuova realtà, il nuovo mondo, la nuova utopia, l’Eldorado da seguire, la nuova ideologia diventandone servi vili e servili, attaccando – per l’ennesima volta – la carrozza, dalle ruote craniche bucate, alla locomotiva dei vincitori, svendendo al miglior offerente la propria identità, la propria essenza perduta – da sempre – nel giorno dell’aborto della coscienza.

Ma a Leni nulla importava. Il passato, il socialismo reale, i partigiani antifascisti, le tessere privilegiate per entrare all’università, per accedere – senza alcun sforzo, a parte quello della presenza come dormiente alle lezioni, ed in seguito alle vette più alte dell’insegnamento – non per qualità proprie – ma sulle spalle del padre. Tutto dimenticato, spazzato via come quei giovani che, piccone alla mano, univano Berlino in un'unica città,dentro un'unica storia, costruendo la nuova storia, ma soprattutto celando sotto il tappeto , rimuovendo dalla mente, le vergogne del passato.

In quel tempo, pochi anni dopo la caduta del Muro, aveva finalmente ricevuto – per grazia di un dio a cui nemmeno credeva – la libertà. Libertà di pensiero, di parola, ma soprattutto la libertà più grande: quella d’essere bandiera sventolante a seconda della direzione del vento.

Leni era come un cane da caccia, irriconoscente, addestrato a fiutare la preda. Sapeva servire ogni padrone, eppure non si faceva scrupoli d’azzannarlo, se in preda ad un raptus, al collo. Il suo nuovo dio, la nuova scoperta, il nuovo mondo si chiamava Capitalismo, senza rinnegare mai la sua primogenitura culturale: il Totalitarismo. Creando nel suo Paese, ma essenzialmente nella sua testa, il primo Capitalismo totalitario, come un Ceauşescu dei coatti, nel campo culturale e universitario,voleva sentirsi signora e padrona.
Solo lei doveva essere regina assoluta ed in
contrastata del sapere e della conoscenza tra il Paese occidentale, in cui si credeva esperta, e la sua patria. Lei e nessun altro, pena la morte sociale ed economica, mascherata esclusivamente dalla Sua da libertà d’espressione, andava usata contro chiunque osasse attaccare il suo feudo illuminato da un oscurità atroce e senza via d’uscita, ove lei, da decenni si era persa nei meandri e fagocitata nei corridoi nascosti ed imperscrutabili della sua stessa mente.

Gli anni dopo la caduta del Muro di Berlino passarono. Ed a lei si spalancarono le porte della Università straniere. Poteva finalmente sfoggiare il suo sapere, alla sua erudizione grammaticale, la perfetta conoscenza. come un matematico artistico, delle ferree regole che regolano una lingua. Poteva insegnare, fuori della sua patria, alle giovani menti straniere.

Era orgogliosa, felice come una bambina che può rapinare un negozio di giocattoli con una pistola ad acqua, certa di rimanere, per decenni, impunita. Quando rientrava in patria sentiva che il mondo – nel suo Paese – era ai suoi piedi. Poteva raccontare ai bifolchi che cercavano d’uscire dal lungo stallo dell’economia dovuto al dopo 1989, quello che voleva, accrescendo in maniera esponenziale il proprio ego, sentendosi, come uno dei leggendari Cavalieri della Tavola Rotonda, invincibile.

Gli anni trascorsero. Lei, andava e tornava in patria, tenendosi però ferocemente incollata la poltrona universitaria, al deretano ricco di cellulite e smagliature e pelle a buccia d’arancia, attenta che nessuno fuori del suo cerchio“magico, che non fossero fedeli adepti iniziati, non potessero, non solo mettervi piede, ma nemmeno respirare la sua alitosi di sapienza infinita.

Giunsero finalmente le traduzioni. La prima, tenendo non si è mai capito come, due piedi su tre argini, per un Paese sovrano terzo, per un monarca teocratico assoluto dello Stato più piccolo, ma economicamente dal reddito pro capite, più ricco del mondo.
Era giuliva, felice. Felice come una bambina diabetica che entra in un negozio di dolciumi, infischiandosene delle conseguenze, ingurgita bignè alla crema, brioches, caramelle, dolcetti ipercalorici, col rischio di coma e costretta poi ad abbondati iniezioni in dosi da cavalo, di insulina.

Ma quel primo testo libro fu un fuoco fatuo. Fuoco che si eleva dai cimiteri, da sotto terra, dove i corpi iniziando a decomporsi, emanano gas venefici, che salenti in superficie, sottoforma di fiammelle blu creano leggende nere e incubi, principalmente alle bambine col rischio di calvizie precoci, costringendole a portare la bandana, come se sottoposte a cicli di chemioterapia.

Ma Leni anni prima era andata oltre le proprie possibilità scrivendo una grammatica, che oggi è vista dagli specialisti come un insulto alla lingua dell’ autodivinizzatasi. Il libro à tuttora presente nei mercati rionali della capitale, venduto clandestinamente come merce avariata e tossica, quasi sottobanco sui carretti trainati da somari o vecchi ronzini, degli zingari e in rete, sebbene in pochissimi, visti i nuovi testi ora editi, hanno più interesse all’acquisto di un libro che oggi profuma come la carcassa di un dinosauro rimasto per mesi sotto il sole equatoriale.

Eppure nel corso dei decenni, Leni, quasi sicuramente avrà pestato i piedi a troppa gente, troppi professori suoi colleghi, che alla fine, col dente avvelenato, hanno trovato il modo di farla sentire come una scolaretta delle medie, costringendola ad un angolo, di cui, se ne avesse coscienza e conoscenza di dove è stata gettata, acquisterebbe una piccozza, iniziando a scavarsi – dopo aver sfondato il pavimento della stanza, demolito le fondamenta – una fossa, dove nessuno, nemmeno i figli all’estero,saprebbero come trovarla. Ma questo sarebbe poi avvenuto, oggi a sua insaputa, nell’ottobre del 2007, quando, dicono i ben informati, una commissione di un concorso di traduzione, istituto da un istituzione culturale dove Leni si crede esperta, senza nemmeno sapere chi fosse, ha invitato la vincitrice a “lavorare alacremente, tornando a studiare dalle prime classi elementari, sia sulla lingua di cui ha orgogliosamente, ma incautamente, la cattedra, sia sulla propria lingua materna, che a detta dei suoi connazionali, risulta quasi completamente incomprensibile, come se fosse stata scritta da un aliena di X Files, o di Indipendence Day.

Intanto Leni continuava come una Vedova Nera, l’aracnide che si ciba dello sposo, dopo le nozze, a tessere la sua tela, circondandosi come un Andrei Cikatilo fallito, dimenticato, e giustiziato, di adepti che la facevano apparire ai discepoli adoranti come una Mamma Ebe, santona ed imprenditrice, condannata per circonvenzione d’incapaci, percosse e plagio, ad auutoedificarsi il culto della personalità di leniniana memoria.

Il suo gruppo, composto da sole donne, come amazzoni, estintesi dalla storia, ha come capofila, pronta ad inviare ai materassi le picciotte, una certa Arida Capotekrava.

Arida Petrorakova è una donna, anzi, una single, una signorina – i maligni pensano addirittura illibata – che nel suo Paese, essere “libera” a quasi trent’anni la rende candidata ideale per la corona dizitella a vita, tutta casa e cattedra, a parte quando si diletta, da principiante o novizia virginale, a qualche lavoricchio, malfatto, di redattrice di libri. Uno solo, per quanto oggi è dato a sapere. Anche lei, come al Sua Signora, Grande esperta, oltre che di grammatica ed etnocultura, di teoria della traduzione, senza uno straccio di libro tradotto.

La grande occasione di Leni per dimostrare all’universo, alle galassie, alla Via Lattea, per la precisione al terzo pianta del Sistema Solare, lala Terra, anzi per la verità al suo Paese, o per meglio dire ad un circolo ristrettissimo la sua maestria, finalmente giunge nel 2007, quando le è stato consegnato il libro di una “Misteriosa fiamma di una regina” solertemente tradotto, a quanto si biascica dopo qualche bicchiere di grappa, ad un prezzo fuori mercato, quasi da cravattaio, per il più grande editore del Paese, che nonostante qualche sguardo sbieco, ha accettato, in fede poverino, a scatola – piena di vermi – chiusa.
Il libro, a quanto si dice nelle taverne più malfamate della capitale,
è stato elaborato nella lingua materna della nostra, prendendosi un tempo che portava quasi alle calende greche (o che avrebbe quasi permesso l’edificazione della Grande Piramide di Giza, in Egitto, nella Valle dei Re, quelli veri dove) – quando il destino si dice bastardo – ha dovuto essere redatto, cosa più unica che rara da ben due redattori, e una di queste era Arida Capotekrava, più un esperto linguista, per la pulizia finale del testo della lingua di Leni. Chiaramente l’editore, dopo aver imprecato contro qualche divinità, si è reso conto – troppo tardi – in che razza di “luamaro” si era cacciato, e dovette correre ai ripari. Ma si sussurra anche negli ambienti editoriali, che una volta visto il lavoro svolto, anche dai redattori, si sono messi le mani sui capelli, anticipando quanto poi, nel 2007 ad ottobre, avrebbero detto i colleghi stessi di Leni, quando questa vinse un concorso per la traduzione, indetto da un istituto culturale straniero, del romanzo “Pietre malate”.
Ci sono state in passato molte voci di corridoio, che nascoste dall’anonimato, hanno affermato, che Leni abbia cercato spesso di tradurre dei libri, ma quando era contattata,schiava servile della superbia e della voracità danarifera, sparava cifre da manicomio criminale, dove gli editori a volte annebbiati dalla fama, accettavano, chiedendo a riprova della sua sublime magnificenza alcune pagine di traduzione, salvo poi strapparsi con le unghie i bulbi piliferi, quando leggevano il tradotto in forma incomprensibile, mandando – giustamente – a monte il contratto e rivolgendosi altrove.

Dice la leggenda che “la lenza” di Leni, fino a poche settimane fa, non sapesse il significato dell’idioma “Che Lenza”, il che dice tutto sulla sua presunta conoscenza della lingua che pretende d’insegnare alla giovani generazioni. Ma d’altronde, ripercorrendo il suo passato, la sua storia, non ci si può aspettare nè di più, e nè di meglio, in quanto, molti dicono, che il fumo sia molto, ma che l’arrosto se l’è mangiato lei stessa.

Le malelingue spifferano che Leni e i suoi compari, che emanano assieme emanano affluvi nauseabondi da “Banda dei quattro”, non si sono fermate, e che l’esimia, dando sfoggio pubblicamente, davanti ad una platea di cento persone, abbia fatto l’ennesimo buco nell’acqua, andando a fare le pulci ad un libro, di cui dopo un’attenta rilettura delle critiche di bassa lega di Leni, anche al più inesperto dei traduttori è risultato chiaro che questa si è persa perduta nei propri liquami della sua vanagloria. D’altronde dice sempre il solito anonimo ben informato, dice che una che confonde “olio profumato” per “olio santo” – perché traduce i testi di un teocratico monarca straniero, che ogni domenica si affaccia, come una qualsiasi domestica, ad un balcone che da sulla piazza del mercato – dimostra che il contatto con la realtà, col mondo reale è definitivamente morto e sepolto.

Ma l’apoteosi del ridicolo di Leni Danarova e Arida Capotekrava hanno provato a raggiungerlo, quando quest’ultima, in spregio ad ogni più elementare norma etica scritta e non, ha avuto l’ardire di proporre la sua ex professoressa per un premio come migliore traduttrice, quando anche un somaro , che non fa altro che brucare, ragliare, urinare, defecare e montare la somara, sa benissimo che sarebbe stato in conflitto d’interesse , se fosse andato a proporre qualche suo collega di traino del carretto per il premio del miglior servitore dell’anno. Evidentemente Arida Capotekrava, troppo elevata – secondo lei – per capire queste cose semplici. Il tutto non le è passato nemmeno per la testa, o se fossero passate, sarebbero entrate da un orecchio ed uscite – senza trovare ostacoli di sorta – dall’altro, disperdendosi nell’etere come la rugiada mattutina che evapora, quando il sole inizia a scaldare – il mattino – l’erba, non quella fumata.
Questa fiaba nera, tristemente satirica di Leni Danarova e in parte di Arida Petrorakova sta forse lentamente facendo il giro del mondo, piano piano, a passo felpato, senza far rumore, per giungere, un giorno – forse – alle orecchie delle due tapine, che vittime, la Leni del proprio ego, e Arida della propria sudditanza nei confronti della “Gran Maestra”, continua a vivere, vegetando, come un malato eterno in coma irreversibile, nell’illusione di risvegliarsi, forse un giorno, dal sonno della ragione.

Oggi si vocifera che Leni Danarova, non insegni più nell’università ove si è laureata, ma che sia passata – dopo aver vinto il concorso – alle sudditanze di un’università privata, felice di proseguire la sua storia e il rapporto – secondo lei – idilliaco con i poveri studenti.

Questa fabula è per grandi e piccini. Per i grandi perché tornino ad avere la purezza dei bambini che guardano al mondo con occhi incantati e privi di malizia, con gli occhi puri della fanciullezza, indipendentemente dal luogo di nascita o cultura di provenienza, indipendentemente dalla lingua e dall’estrazione sociale.

È una fiaba, anche nera e dura per tutti i bambini, affinché, una volta “grandi” nella società e adulti, ricordino con cuore colmo d’orrore la triste e dolorosa fiaba di Leni Danarova e di Arida Capotekrava, ricordandosi nella vita di non essere mai come loro, perché alla fine, il fuoco eterno, le fiamme salenti al cielo dell’inferno, che giungeranno dopo il trapasso le arderanno per l’eternità, lasceranno questa terra, questa valle di lacrime pianto e gioia, con l’ultimo barlume di coscienza, prima d’esalare l’ultimo respiro, con l’itera vita che scorrerà loro innanzi agli occhi, non avendo però, poi il tempo, di chiedere perdono a nessuno e andandosene col cuore gonfio, all’ultimo battito col rimorso d’essere vissute inutilmente, provando quel dolore che nessun moribondo dovrebbe mai conoscere prima d’esalare l’ultimo respiro, correndo impauriti poi, per l’eternità, verso l’oscurità.

Questo racconto è frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi riferimento a fatti, persone, circostanze, passate e/o presenti, uomini o donne vivi o morti, è puramente casuale.


Marco Bazzato
Scrittore
06.10.2008
http://marco-bazzato.blogspot.com/






1 commento:

  1. Cos'hai contro il nostro bravo Papa?Dovresti vergognarti ed andare a confessarti!

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