martedì 3 ottobre 2006

Attraversare la soglia della vita


Perchè si dovrebbe rispettare la morte? Perchè questa prostituta che alla fine prende tutto e tutti deve essere rispettata? Viviamo in una società figlia della falsità e dell?ipocrisia, in una società dove è lecito vedere morti ammazzati per finta ad ogni clik di telecomando, ma guai a parlare di morte sul serio.
Siamo avvolti dalla morte, siamo avvolti da un sudario nero che trasuda sangue, e bagna la terra, creando rivoli rossastri di carne strappata e decomposta.
Nella società del branding, dove l?immagine è tutto, fingiamo ancora rispetto per quella signora oscura che ci porterà comunque via con se. Ma è il canto dello cigno, il canto di quanti fingono di non vedere, di quanti rifiutano solo l?idea che a loro possa accadere.
Forse pochi hanno camminato in una corsia d?ospedale, sono stati degenti immobili per giorni, settimane, mesi a letto, hanno sentito il loro corpo che li faceva urlare di dolore, e reclamare una fine che non voleva arrivare.
Non possiamo avere rispetto per la morte, perchè lei non ha rispetto per la vita. Lei ruba la vita, la conduce, la guida, la condiziona, la manipola con la sua oscura presenza genitrce. La morte è una madre assassina, una madre che non ha pietà per i suoi figli, e li vuole decomposti ai suoi piedi, ma è una madre giusta.
Ho visto la signora in faccia molte volte, troppe. Ho visto il suo sguardo, ho sentito il suo profumo, ho udito il richiamo della sirena che vuole ammaliare, ma a tutt?oggi non mi ha preso. Mi ha sfiorato, toccato, è entrata in me, io sono entrato in lei, nel suo grembo, nel suo utero morente, ma che alla fine, mi ha nuovamente espulso, mi ha rigettatto come un coinato di bile verso la vita. Mi ha rifiutato. Ma'l?ho accarezzata, l'ho bramata, l'ho ricercata come un tossico cerca l?ennesima dose. Lei è una droga, un narcotico, un'anestetico, un tocco di Belladonna che sana ogno dolore. In lei non c?è dolore, non c?è gioia, nè pianto, non c?è sofferenza nè amore. Il lei c?è tutto e l?assenza del tutto. Il lei l'assenza del tutto è presenza.
Morire significa ritornare in un grembo diverso, in un grembo amico e nemico, un utero cullante e silenzioso, dove i battiti del cuore sono assenti, dove i pensieri sono inesistenti e in essi ti perdi per sempre.
La morte ha giocato con me poche settimane fa. L'ho vista per un lampo alle cinque del mattino con la vista sfocata, con gli occhi lacrimanti, e il mondo che mi girava attorno. Mi chiamava per l'ennessima volta, mi voleva per un?altro viaggio tra i confini della vita e della non vita. Ho viaggiato con lei, mi ha condotto per mano per tre interminabili giorni. Un filo sospeso, un mondo amico e già conosciuto, un mondo dove innanzi a se si vede solo un muro da attraverasare, un balzo da compiere, un sottile filo da strappare. Era come camminare sospesi nel cielo, dove i piedi erano appoggiati e tremanti su un?invisibile filo tenute, pronto a spezzarsi in ogni attimo. Sopra il cielo, in basso il vuoto, ed io sospeso, pronto a precipitare, pronto a voltare, pronto a spiccare il balzo verso l'abisso fatto di nulla.
Le gambe non mi reggevano, la vista si oscurava, andava e veniva a sprazzi come una lampadina impazzita. Tutto per un attimo esisteva e poi spariva, risucchiato nel vortice del non sentire e del non vedere.
Attorno a me persone affardellate sul mio corpo. Punture, monitor che lanciano oscuri segnali, buchi, buchi, buchi. Tanti buchi da rendermi violacee le braccia, le gambe, la mente e il cuore. Una parte me fuggiva all?arrivo di una nuova iniezione. Ricordi che credevo dimenticati tornavano agalla, immagini che pensavo d?aver cancellato balzavano fuori dall?oscurità del passato facendomi tornare l?antico terrore, l?antica gioia, l?antica amarezza per quello che non dovevo essere, ma alla fine sono diventato.
Ero per l?ennesima volta un pezzo di carne senz?anima e senza spirito. Per strapparti alla morte ti deve essere rubata la dignità. Devi essere esposto agli sguardi di tutti come un quarto di bue sulla vetrina del macellaio. Nell?attimo non ti rendi conto di tutto ciò. Hai un unico pensiero: fuggire, fuggire, fuggiere. Fuggiere il più lontanto possibile. Fuggire dalla vita, fuggire dalla morte, scappare dal quel corpo che ti imprigiona. Ti senti un carcerato, ingabbiato dentro un guscio di carne che non appartiene più a te. Si è priginieri dentro un ammasso di sangue, feci, urina, muscoli inerti. Gli occhi vedono, ma il cervello non registra i ricordi, si è fluttanti dentro una bolla di immagini virtuali, immagini che sfuggono alla comprensione dell?attimo, immagini che rimangono impresse in angoli oscuri della mente, e per che per l?ennesima volta ti fanno deviare la vita.
Molti dicono che in quegli attimi esista un aldilà, un Dio, un Padre che ti accoglie. Tutto è vero secondo le proprie paure, o secondo le proprie presunte certezze di fede. Ma tutto è falso. Alla fine c?è solo una soglia da varcare, un uscio da attraversare, un abisso sconfinato in cui cadere in eterno.
È una caduta che dura un attimo, ma senza fine. È una caduta che porta a cancellare ogni emozione, ogni ricordo, che conduce alla consapevolezza che oltre c?è solo carne consunta, divorata dai vermi, decomposta. Un ritorno alla polvere primordiale, una scomparsa totale, dissolvendosi definitivamente.
L?uomo vive con la speranza della seconda vita, con il barlume di un?eternità creato dal bisogno di credere in un aldilà, costruito sulla fasulla necessità di dare un senso alla vita stessa. Ma è una menzogna, è un atrocità infame, un?inganno, una falsa speranza, una falsa promessa. Ogni formula religiosa, afferma di crededere che oltre la morte c?è dell?altro, ma è solo la sconfitta della ragione innanzi all?ineluttabilità della morte stessa. È un volgare pretesto quando non si ha mai varcato per un attimo quella soglia oscura.
Cerchiamo una speranza di vita eterna perchè abbiamo timore e terrore del termine della vita presente, abbiamo timore e terrore di perdere i nostri ricordi, le nostre esperienze, i nostri affetti, i nostri difetti. Abbiamo paura della vita stessa, e pensiamo da morti come se fossimo vivi, pensando a quei concetti astratti che nell?abisso del nulla sono realtà inerte.
Vivere alla fine significa avere consapevolezza assoluta che si deve morire, vivere significa avere il coraggio d?abbracciare la morte, come si abbraccia la vita al primo vagito. Morire non è altro che una caduta eterna che dura un?attimo. Morire non è altro che un bisogno naturale della vita. Morire è l?assoluta certezza, che i morti sono vivi solo nei nostri ricordi, nei nostri pensieri, nelle nostre illusioni sull?aldilà, ma scomparsi noi scomapiono anche i nostri morti, i nostri affetti, dissolti tutti alla fine in un vorticoso nulla eterno.

Marco Bazzato
03.10.2006
http://marco-bazzato.blogspot.com/

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