sabato 25 febbraio 2012

La sindachessa e la bandiera del “Sole degli Appennini” nell’aula consigliare


“Impresa familiare” 

Erano molti i nomi che giravano tra i suoi concittadini, i detrattori e avversari politici. Alcuni la chiamavano “Franchina”, in onore e in odore da sudore e pelo ascellare del mitico Franchino, reso immortale nel celebre “Fantozzi subisce ancora”,   che le ricopriva le auguste e cadenti mammelle, dove a detta di chi l’aveva vista in spiaggia, giungevano quasi alle cosce.

Altri chiamavano lei e il marito “La famiglia Addams” dove la sindachessa interpretava il ruolo della nonna di Gomez Addams e il marito, “capellone” fino all’inverosimile, quello di zio Fester. Altri ancora la apostrofavano lo “Scrondo” per via d un’ipotetica somiglianza con  un personaggio televisivo degli anni ’80, oppure lo “scolo”, ma non si era mai inteso quello del lavandino o come malattia venerea. Sta di fatto che era una nemica giurata del sapone, dei deodoranti antitraspirazione, dello shampoo e del dentifricio.

Lo stesso Secondo Martinelli una volta in passato, avendo avuto l’auto guasta, era stato caricato dal donnone e dentro la vecchia Fiat 128 color prugna, cosparsa di ogni Mal di Dio. Il giovane di allora, quasi respirò a fatica, tanto era il tanfo nauseabondo emanato dal corpo della donna, dal sudore e dall’alito fetido che sapeva di pantegana lasciata a imputridirsi sotto il sole d’agosto, che aveva impregnato sedili e pannelli delle porte in finta pelle e dove anche le bocchette d’areazione emettevano aria che puzzava.

Ma era fatta così, Carmela Celodurista. Aveva uno sguardo da Bos taurus, da bove castrato affettivamente e fisicamente. Di professione, prima di dedicarsi alla politica attiva e militante, faceva la donna delle pulizie.

Strano ossimoro per una in guerra con l’igiene personale.

La donna era sposata, il marito Teomondo Scorfalo, detto Geppetto, di professione falegname avvinazzato, chiamato anche “Il sega”. Non se ne sono mai capiti i motivi rendiconti. Alcuni dicevano che fosse per via degli occhiali da miope e per le ore che passava in bagno fin dall’adolescenza, sognando d’essere Super Sex che gridava “ Fix tcten tcten” nei momenti di massima orgasmica tensione interiore o quando aveva alzato il gomito a forza di rossi o bianchetti scadenti, bevuti d’un fiato nella bettola sottocasa.

Gli Scrofalo avevano una figlia, Luisella, chiamata alle spalle, dalle amiche, “Il Cefalo”, per l’alto quoziente d’intelligenza mostrato alle scuole medie, avendo ripetuto la terza media – al Don Bosco – sei volte ed essendosi diplomata per corrispondenza alla “Scuola Radio Elettra”, conseguendo il diploma di lingua italiana per stranieri, Livello A2, con il minimo dei voti, dopo aver dato l’esame sette volte, dove la madre esasperata per i risultati del frutto del suo ovulo, aveva prima supplicato e poi pagato la commissione esaminatrice perché mettessero da parte i pregiudizi e le dessero l’agognato pezzo di carta. E così avvenne.

  Fu così che la figlia alla veneranda età di trentacinque anni riuscì a trovarsi un lavoro come svuota cessi, in una stamberga di albergo, denominato “Il Pennone”, frequentato da extracomunitari di colore, dove sebbene gli ospiti fossero stranieri, laureati in patria in Medicina, psicologia, psichiatria, ma che di professione erano costretti a fare i papponi, o a spacciare droga, Luisella, riusciva a farsi intendere, non perché brava, ma perché gli ospiti, nonostante pulci, zecche, pidocchi e cessi intasati, erano dotati, rispetto a lei, di Quozienti di Intelligenza superiori al suo – e ci voleva poco –  e riuscivano a intuire cosa volesse dire con le sue frasi smozzicate in italiano, infarcite da dialettismi arcaici, in uso dai contadini del diciannovesimo secolo.

Carmela Celodurista aveva iniziato la sua attività politica pochi mesi prima del compimento del trentesimo atto d’età, il lavoro del marito, “Il sega” non andava al meglio. I tavoli, le credenze, i comò che produceva nella modesta attività imprenditoriale erano sbilenchi, con la vernice scadente passata alla meno peggio, dato che usavano pennelli quasi privi di setole e smalti scadenti. Anche le pialle lavoravano alla ben e meglio, le parti lisce sembravano bassorilievi fatti da drogati in crisi d’astinenza, eternamente storti, tanto che ogni volta doveva metterci sui piedi degli spessori per metterli in piano.

Carmela non si perdeva nessuna manifestazione, convegno, dibattito politico del partito indipendentista al quale si era iscritta. Adorava il “commendatore”, così si faceva chiamare l’anziano leader, diplomato, come la figlia Luisella, alla “Scuola Radio Elettra” come aggiustatore di Radio a Galena. Anche il “commendatore” aveva figliato, un maschio, detto “Il Sardina”, per via dello sguardo intelligentissimo. Bravissimo con i congiuntivi e con la storia d’Italia. Tant’è che pensava che Camillo Benso conte di Cavour, non fosse il nome di uno statista nato a Torino del Risorgimento italiano, ma di un Cammello, dal nobile pedigree, appartenete a un Conte della Savoia.

La donna, lentamente, a forza di banchetti nelle piazze della città, e a colpi di ascella pelosa e pezzata, era riuscita a farsi strada, prima nell’opposizione e poi, quando il vento anche a Roma era cambiato, entrando nella stanza dei bottoni come assessore alle Pubblica Istruzione, cercando di far avere alla figlia una delega per le politiche scolastiche. Operazione non riuscita perché una giornalista di un quotidiano nazionale, Giuseppa Grana, dai colleghi veniva soprannomina Rogna era andata a scartabellare negli archivi della scuola media privata, ed era riuscita ad accedere a carteggio della Scuola Radio Elettra, in quanto la madre aveva fornito una falsa laurea in lingua e letteratura italiana.

A Giuseppa che manco sapeva che Luisella fosse la figlia dell’assessore comunale, ci era venuta in contatto perché stava facendo un’inchiesta sugli alberghi in prossimità della Stazione Ferroviaria che davano alloggio a persone prive di permesso di soggiorno, anche perché la madre aveva sempre detto che la figlia laureata lavorava per degli stranieri. Quando la vide che cercava di pulire un vaso alla turca con il suo spazzolino da denti, ne notò la somiglianza.

Ma Carmela non si accontentava, voleva di più. Non gli bastava la carica di assessore comunale, mirava più in alto: in Regione. E alla fine ci riuscì.

 Sono entrate nella storia le sue interpellanze come consigliere regionale circa la dannosità di saponi, deodoranti, dentifrici e shampoo, sui pericoli che questi cagionano all’essere umano. Per questo ne aveva richiesto la proibizione in tutto il territorio regionale.

 Mozione respinta.

 Così come era entrata nella storia regionale un'altra sua trovata: l’abolizione della lingua nazionale, con il ritorno al dialetto, tramandato alle giovani generazioni per via orale. Riteneva che i libri danneggiassero l’intelletto, senza contare, come forse era accaduto al “Sega”, che la vista di parole e immagini potessero portare all’abbassamento della vista e cancellassero le sapienze antiche dei progenitori. A suo scrivere andava proibito nelle scuole l’utilizzo dell’alfabeto, ma soprattutto dei numeri perché di origine araba. Tutte le operazioni, le somme, i calcoli, le moltiplicazioni, le divisioni e via discorrendo erano cifre “infedeli”. E voleva, anche se li detestava, il ritorno alla numerazione romana.

Mozione respinta.

Alla fine Carmela Celodurista riuscì nel suo grande sogno: avere due poltrone per il suo enorme culone. Con l’aiuto scellerato dei suoi concittadini che l’avevano eletta Sindaco, guidato da una giunta dove i componenti erano bene o male gli stessi da quasi quindici anni, che si scambiavano le poltrone, come ci si scambiano mutande scheggiate di feci vecchie e panni sporchi.

Così come era arrivata alla carica di Consigliere Regionale, in forza al partito, era risuscita a diventare sindachessa utilizzando armi non convenzionali, proibite dalla Convenzione di  Ginevra e dai successivi cinque protocolli, adoperando le sue ascelle, la pelle grassa e l’alito fetido, dove i cittadini, rincitrulliti dal tanfo che emanava, l’avevano votata come se fossero stati intossicati da gas urticanti o lacrimogeni, sparati dalla Polizia, contro degli inermi che manifestavamo, perdendo la partita.

L’ultima sua trovata è stata commessa tre settimane, durante un consiglio comunale, quando nell’aula consigliare aperta al pubblico, ha esposto, oltre al tricolore, la bandiera dell’Unione Europea, il vessillo comunale, anche quella del suo partito, “Il Sole degli Appennini”

Le opposizioni e la maggioranza sono insorte e sono scoppiati tumulti. Tumulti sedati quando la donna ha sollevato le braccia al cielo, mostrando le ascelle su cui si erano formate delle stalattiti o delle treccine rasta, con gli effluvi che si sono spanti per l’aula, costringendo gli astanti a mettersi i fazzoletti sul naso, cercando di trattenere i coniati di vomito. Alcuni non ci sono riusciti e hanno inzaccherato il pavimento di spaghetti allo scoglio, cozze, capesante, vongole e rane macinate.

Era presente anche la giornalista Giuseppa Grana, la quale nonostante fosse stata abituata in passato ai tanfi dei cadaveri decomposti delle zone di guerra, non è riuscita a trattenere lo stomaco, rigettando il cotechino con le lenticchie del pranzo di Natale, che per l’occasione, sebbene espulsi da quasi due mesi, erano tornati a far sentire la loro indignazione.

Due giorni dopo un suo articolo al vetriolo riempiva quasi una pagina del quotidiano nazionale, con tanto di descrizione dei cibi rigettati e con una foto scattata con un telefonino alla sindachessa con le braccia alzate al cielo, le ascelle rasta e i capelli unti sudati che  cadevano a ciocche sul volto, con tanto di forfora, che sembrava la striscia irregolare di una pista di cocaina.

Fu la notizia del Tg Rai delle 20.00, ma anche il Tg3 nell’edizione regionale delle 19.30 ne diede ampio risalto. Lo stesso fece la BBC, l’Abc e Al Jazeera. La tv satellitare del Quatar, anche nella versione inglese, che con dovizia di particolari, il giornalista parlava delle armi non convenzionali utilizzate per rendere a miti consigli gli insorti, poi stramazzati a terra.

Ma la giornalista non si era limitata al semplice articolo. Il mattino seguente, ancora prima di mettersi al lavoro, aveva inviato un pacchetto via Ups al Prefetto, sapendo quale sarebbe stata la sua reazione.

Il Prefetto ancora ufficialmente ignaro dell’accaduto alla vista del plico e del contenuto, sorrise amaramente preoccupato per l’ulcera.

Aveva convocato la sindachessa per il pomeriggio seguente. Quella bandiera illegale in un’aula consigliare, doveva essere rimossa, senza se e senza ma.

Carmela Celodurista giunse nel primo pomeriggio, abbigliata con il suo solito male arnese: vestiti macchiati e bisunti, capelli arruffati e grassi, alito e ascelle fetide.

Il prefetto ancor prima ancora che entrasse nel suo studio, a porta chiusa, si mise le mani, una sulla bocca e un'altra sullo stomaco, cercando di trattenere i coniati. Ci riuscì a fatica. La donna bussò. Aveva l’aria tronfia, la camminata sicura indipendentemente dai prosciutti in bella mostra dei polpacci villosi.

Il Prefetto, che non vedeva l’ora di ricacciarla nella sua latrina,disse senza tanti preamboli:
 «Quella bandiera di partito deve essere tolta! Intesi?»
La donna prontamente rispose: «Quella bandiera resta al suo posto!» alitandogli a pochi centimetri dal naso.

Il Prefetto sbiancò. Sembrava Paolo Bitta, quando vede quel cesso della Patty. Adorava guardarsi su Italia 1 le nuove serie di Camera Caffè, dopo che da You Tube erano state tolte le serie precedenti. 

Era bianco come un cencio. In quel breve attimo in cui la donna aveva aperto la bocca gli aveva visto le carie, i denti gialli e quelli piombati alla ben e meglio e un pezzettino dell’abbacchio della Pasqua precedente.

«Lei, ora torna al suo Municipio, subito e mi toglie quella cazzo di bandiera!» Sembrava De Falco della Capitaneria di Porto che ordina a Schettino di tornare a bordo. «Ci siamo capiti?»
«Ma è quasi buio, signore…»balbettò Carmela confusa. «.È quasi buio…ripetè a bassa voce, con un sussurro.
«Ci siamo intesi?»
«Sì»
«Non ho capito. Ripeta!» si sentiva come il Sergente Hartman  che sbraita contro a “Palla di Lardo”
«Signorsì, signore.» rispose spaventata tutto d’un fiato. «Lo farò immediatamente, signore.»
«Bene…Ah, un'altra cosa.» disse porgendoli il pacchetto ricevuto il giorno precedente.
La sindachessa lo prese e lo aprì, guardandone il contenuto stupefatta.
«Perché?»
«E ha il coraggio di chiederlo?»
«Ma signor Prefetto, il sapone, lo shampoo, il deodorante ascellare, il dentifricio fanno male  al corpo….»cercò di giustificarsi.
«Non me ne frega una sega se fanno male al suo corpo, fanno bene al mio stomaco e a quello dei suoi concittadini» gli gridò contro, infuriato.
«Ma io…»
«Vada a lavarsi, e inizi a presentarsi come un essere u mano, cazzo! È un ordine!»

E la donna girò il suo immenso culone diede di spalle al Prefetto e avviandosi vero la porta, sollevò il braccio destro  e dopo aver girato il collo si annusò l’ascella. «Quell’idiota di un Prefetto…Io non sento nulla…» si disse sottovoce, confidando di non essere udita.
Ma il movimento stesso dell’aria gli portò l’ultima zaffata.
Il Prefetto attese che la donna fosse uscita, poi tenendosi la bocca corse in bagno. Riuscì ad arrivare appena in tempo sulla tazza del water e rilasciò lo stomaco. Prima di tirare lo sciacquone fissò il contenuto del suo stomaco. “Maledizione”imprecò mentalmente: “dieci euro del cibo cinese gettato nel cesso dalla parte sbagliata…merda!”

Dall’autobiografia di Secondo Martinelli
I stesura
Marco Bazzato
25.02.2012

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