martedì 21 agosto 2007

Italia: Servizio sanitario Nazionale, anno 2055

«Sei mai stati ricoverato in ospedale?» Domandò il medico al piccolo paziente con un sorriso sul volto.
Giuseppe aveva dodici anni, ed era la prima volta, che veniva ricoverato. Aveva paura, molta paura. Il dottore, dopo averlo visitato, gli disse di rivestirsi, e il piccolo ubbidì, cercando di mostrarsi coraggioso.
«Vieni con me, dai!» intimò quell’uomo alto con i camice bianco. «Il tuo lettino ti aspetta».
«Voglio la mamma» piagucolò il ragazzino, mentre cercava di divincolarsi dalla morsa della mano del dottore.
Giuseppe attraversò il lungo corridoio, cercando di allentare da se l’orrore che vedeva.
«Guarda, tu credi che qui tanti bambini vengano guariti vero? Bugie. Muoiono come mosche. Nel lettino dove andrai ora, proprio eri è morto un bambino di cinque anni. Sei contento?
Il piccolo aveva perso tutto il coraggio, e non riusciva più a trattenere le lacrime, e iniziò a piangere e a scalciare.
«Piccolo somaro maledetto. Sei peggio di un asino» bestemmiò il dottore, rispondendo a sua volta, con un calcio, che colpì Giuseppe sullo stomaco. «Così impari. Ho promesso A tua madre di farti guarire, e per Dio, ci riuscirò anche a costo di ucciderti».
Il piccolo dopo il colpo subito, cadde a terra perchè il medico aveva allentato la presa sulla mano. Si stringeva la pancia dolorante, sentendo che l'aria gli usciva a fatica.
«Sorella!» gridò il dottore alla caposala. «Prenda in consegna questo piccolo somaro, e lo porti nel letto 17».
La suora da culo enorme e dai seni prorompenti, stretti nella fascia di contenimento, prese Giuseppe per i capelli e lo trascinò fino alla camera.
«Maledetti bambini, che Dio maledica le vostre madri per avervi messo al mondo»» iniziò a dire sottovoce come una cantilena. «Verrà il giorno del giudizio, dove brucerete all’inferno, per di lussuria d9avervi concepiti, partoriti e cresciuti. Ma ora la festa è finita. Oh, come se è finita!».
Il piccolo fu sollevato da terra per i capelli, e gettato sul letto con violenza, spogliato e rivestito con il lercio pigiama ospedaliero, senza troppi complimenti.
Giuseppe, il qui dolore alla pancia stava passando, cercò di ribellarsi, provando a graffiare la suora, ma quest’ultima prese le manette lo imprigionò alla testiera del letto. «Se devi pisciare o fare altre cose, fattele addosso. Qui ,i vestiti si cambino una volta alla settimana» gli urlò, e dopo avergli mollato uno schiaffo sul volto, girò il grosso culone e se ne andò.
Il ragazzino si guardò attorno. Negli altri cinque letti, c’erano altrettanti ragazzini, pressappoco della sua età. Erano tutti svegli ma con gli occhi sbarrati. Tranne uno che sembrava immobile.
«Che cos’ha quello li?» domandò piagnucolando, rivolgendosi a tutti e a nessuno in particolare, indicando l'ultimo letto a davanti a se, sotto la finestra a destra.
«È morto due giorni fa. Ma la suora dice che sarà portato via domenica. Era un bambino cattivo e Dio l'ha ucciso» rispose in modo quasi assente il piccolo degente.
La camerata aveva un odore strano. Un odore dolciastro, ma non era solo il puzzo derivante dalla lenta decomposizione del cadavere esposto ai raggi del sole, ma era un odore più vecchio, antico, un lezzo di tante morti accavallate, e lasciate lì, quasi a decomporsi. Un odore che aveva intaccato le pareti non più bianche ed immacolate, ma di un grigio indefinito e ammuffito.
«Quando ci portano il pranzo?» riprese Giuseppe.
«« «Quando tua madre porta il denaro. Qui i pasti arrivano solo, se mamma e papà pagano.Altrimenti si fa la fine di quello là!» rispose il solito degente. «I suoi non avevano più soldi per pagargli le cure, e hanno dovuto lasciarlo morire qui».
Giuseppe si alzò la lercia maglietta del pigiama e si scrutò la pancia. Il punto dove il medico l’aveva colpito, aveva iniziato a diventare violaceo, e il senso di nausea, stava per tornare nuovamente, come un coniato di vomito che risale in gola.
Le ore nella camera-prigione trascorsero con lentezza esasperante, finchè improvvisamente il ragazzino a fianco di Giuseppe iniziò a vomitare sangue e gridare, tenendosi la testa tra le mani per il dolore.
«Fate qualcosa! Fate qualcosa!» Iniziò a gridare Giuseppe, impossibilitato a muoversi per prestare soccorso al suo vicino di letto.
«Non ti affannare. È quello che stanno aspettando da giorni» rispose sempre il solito ragazzo, mentre entrava sudato il medico che aveva ricoverato Giuseppe, seguito dalla suora e da quattro inservienti, due dei quali reggevano delle grosse.
Il dottore si mise davanti al letto del giovane che continuava a vomitare sangue e gridare. Le urla del piccolo erano assordanti, ma sia i personale sanitario, sia gli altri degenti, sembravano abituati a quelle grida d’agonia.
Passarono dieci minuti, e il ragazzino non riusciva a calmarsi, Finchè il medico spazientito, si avvicinò a costui e gli sbattè la nuca sulla testiera del letto, facendolo svenire.
«Su muovetevi. Questo sacco di carne ci ha fatto perdere anche troppo tempo».
Gli inservienti, si misero affacendarono attorno al giovane svenuto, e dopo uno di loro, con il bisturi tra le dita gli incise il torace, mentre altri due, dopo avergli aperto il ventre, si affardellarono sugli organi interni».
«Muovetevi, maledetti figli di Satana!» gridava la suora, smoccolando poi sottovoce, «Siete lenti come i caproni di Belzebù».
«La sorella ha ragione. Sotto ci aspetta il Presidente per la sua quarta sostituzione degli organi e voi state tanto inutilmente attenti a quel pezzo di carne morta!»
L’aria nella camera era diventata irrespirabile. Il puzzo di sangue, feci, urina e adrenalina, si mischiava, facendoli salire coniati di vomito, che a fatica riusciva a trattenere.
L’operazione di predazione a cuor battente, non durò più di mezzora, e gli inservienti, seguendo il medico e la suora, si allontanarono dopo aver messo gli organi appena estratti sulle sacche colme di ghiaccio, e i resti del ragazzino, rimasero sparsi sul letto.

Quello era il nuovo sistema sanitario nazionale italiano, all’alba della seconda metà del XXI secolo.

Marco Bazzato
21.08.2007
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