venerdì 28 ottobre 2011

Marco Simoncelli: insegna agli angeli a impennare

Appena domenica vidi le foto dell’incidente accaduto durante il secondo giro del gran premio di motociclismo, valido per il motomondiale, classe GP, a Marco Simocelli, era chiaro che non c’era nulla da fare, anche se l’umana speranza è un appiglio a cui tutti si aggrappano, fino a quando non arriva la comunicazione ufficiale.

Non sono un fanatico di moto, preferendo la Formula 1, però Simoncelli, visto dalla tv, durante le numerose apparizioni era un qualcosa di diverso, e se si può dire,aveva un unico grande “difetto”: la schiettezza. Il candore scanzonato che lo poteva quasi far apparire antipatico. Però quel suo “difetto” era la sua forza, fino a quell’ultimo maledetto giro di pista.

 
Simoncelli non poteva essere catalogato, messo dentro una specie di box, e incasellato. Era un “cavallo pazzo”, che da buon ruspante emiliano, se ne sbatteva di tutto e di tutti. Ma era uno “sbattersi” particolare, uno “sbattersi” che generava empatia e simpatia, perché guardando i numerosi servizi fatti in questi giorni, compresi i tanti spezzoni di interviste inedite, si vedeva un ragazzo che non aveva timore di mostrarsi così com’era, e tra i numerosi giornalisti, e operatori che seguivano il motomondiale, Simoncelli rompeva quel dogma che vorrebbe il distacco tra l’intervistato e l’intervistatore, trattando i professionisti della comunicazione con una familiarità, che stupiva gli stessi giornalisti. Perché era fatto così. Guardava le persone in faccia e con l’istinto di uno che corre sul filo della vita, aveva la capacità di spezzare quel filo del distacco professionale, trasformando un’intervista in una specie di festa, una sagra paesana dove il divertimento e l’albero della cuccagna sono un obbligo, come il bicchiere di rosso e la partita a carte, per allentare la tensione di una giornata.

Simoncelli, nella sua breve ma intensa vita, ha lanciato dei messaggi, che in parte si sono visti durante i suoi funerali: il primo quello della famiglia, di un padre, una madre, una sorella e una fidanzata che hanno abbracciato la tragedia con una dignità e un sorriso che sembrava quasi disumano. Ma era il sorriso di una famiglia unita, che ha seguito il figlio, il fratello, il fidanzato, sposandone le scelte, i sogni, le aspirazioni, nella voglia di sfidare il limite, spostandolo sempre un secondo più in là.

Ma il messaggio più importante che lascia è quello della consapevolezza di quello che voleva fare, nel realizzarsi in quello che amava, dando un messaggio alle giovani generazioni che andava oltre l’aspetto sportivo di una gara, oltre l’immagine di un cespuglio di capelli che sfuggivano via da tutte le parti, come se anche i capelli, come per le piegate in curva, volessero sfidare la forza di gravità e l’appuntamento con il destino.

Da dopo il funerale i riflettori sulla sua vita terrena di Marco Simoncelli si sono spenti, le luci si sono abbassate, e il casco, assieme alle moto, alle tute, saranno riposte in bella mostra, perché così avrebbe voluto. Ora rimane una famiglia, due genitori, una sorella, una fidanzata, che superato l’abbraccio che li ha sostenuti in questa tremenda settimana si ritroveranno soli, con le immagini, i filmati, i ricordi, i momenti di tristezza e gioia, ma soprattutto con lo sconforto che il loro Marco non c’è più, con quella camera che rimarrà vuota per sempre, con quell’ordine, oggi innaturale, che veniva scompigliato ogni volta che il figlio tornava a casa.

Ieri, durante la cerimonia religiosa, non si è riunito solo il paese di Simoncelli, ma l’Italia, che ha voluto, in un abbraccio ideale, sedersi con i genitori davanti alla bara del figlio, ascoltando nel silenzio, rotto dagli applausi e dalla commozione, “Siamo solo noi” di Vasco Rossi, perché dal momento che il feretro è stato caricato nel carro funebre la famiglia ha sentito che d’ora in poi saranno immersi in quel “Siamo solo noi”, per sempre.

Ai genitori di Marco Simoncelli, come ieri tutti abbiamo abbracciato il loro figlio idealmente, va il nostro abbraccio, la nostra forza, perché da ieri hanno il compito più difficile e innaturale di questa vita terrena: sopravvivere alla morte di un figlio, e per questo, a moto rientrata per sempre nei box, non devono essere lasciati soli.

Marco Bazzato
28.10.2011

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