domenica 14 aprile 2013
Vuoi il lavoro? Togliti il Hijab! Discriminazione o laica ragione?
Di questa presunta discriminazione
che avrebbe subito una donna di 21 (1)
anni, nata in Italia ma figlia di egiziani, che, stando alle cronache giornalistiche,
si sarebbe sentita discriminata in quanto, invece di portare i capelli scoperti
indossa il Hijab
- derivante dalla radice ḥ-j-b, "nascondere allo
sguardo, celare") indica qualsiasi barriera di separazione, posta davanti
a un essere umano o a un oggetto, per sottrarlo alla vista o isolarlo (2) - il velo che
copre interamente il capo, lasciando scoperto il volto, tanto da scomodare
anche il TG1. Velo non indossato da tutte le donne di
religione islamica. Infatti, le più laiche ed emancipate ne fanno a meno, rimanendo
comunque legate alla loro religione, essendoci nell’islam, una visone progressista
e non radicale o estremistica, che libera il meglio delle risorse intellettuali
ed estetiche delle donne che professano questa religione.
Questa signora, a suo dire, si
sarebbe sentita discriminata per motivi religiosi, in quanto innanzi a
esplicita richiesta, fattale via mail, se sarebbe disposta a toglierselo, ha
scelto la sua visione dell’islam, rispetto a una realtà del mondo del lavoro
che richiedeva il contatto con il pubblico, rivolgendosi a un avvocato, forse
perché vittima della presunzione di voler imporre la sua ragione, costi quel
che costi.
Ora non è dato da sapere se
questa donna nata in Italia, sia anche naturalizzata italiana, o se abbia solo
il passaporto egiziano, il che la renderebbe un’extracomunitaria. Resta comunque
il fatto che se sceglie di isolarsi, mettendo una barriera culturale tra se e
il mondo e ha la presunzione di pretendere, specie in un lavoro a contatto con
il pubblico, che questi debba essere costretto a sorbirsi un isolazionista, una
qualsiasi, l’azienda dovrebbe avere il diritto/dovere di tutelare i propri
interessi, rifiutando un’assunzione, perché non rispetta i canoni estetici e
laici della realtà sociale. Mentre la donna pretenderebbe “a forza” di imporre
a soggetti terzi argomentazioni che dovrebbero rispecchiare la sua sfera
privata, costringendo un azienda a subirle solo perché questa donna musulmana è
intollerante alla visione laica di una realtà lavorativa, pretendendone di
farne parte, esclusivamente alle sue condizioni..
Attaccare un’azienda, portandola
in tribunale, esponendola a costi legali, costringendola a difendersi per aver
ottemperato un suo diritto di scelta, come avviene tutti i giorni – sebbene “la Corte europea ha
sempre sancito che le limitazioni che incidono sulla libertà religiosa possono
essere introdotte solo a tutela di diritti personali altrettanto importanti,
come la sicurezza o l'incolumità personale - commenta il legale Guariso - non certo per inseguire un
presunto gradimento della clientela” (3)
– è assurdo e dimostra come questa donna musulmana abbia una visone radicale
solo del suo diritto, e sia pronta a calpestare i diritti altrui,armata dalla
volontà pervicace di far perdere denaro e fatturato ad una realtà economica,
perchè armata dal desiderio acritico di
voler vedere solo se stessi, facendosi passare per vittima di un
sistema, quando alla fine si è ben consci che in questo caso non è il sistema
che rema contro la persona, ma che è la persona che si accanisce contro di se.
Certo, se fosse stata più umile
andando a chiedere lavoro in una ditta di pulizie di fosse biologiche, come
operatrice ecologica, come svuota padelle un sanatorio psichiatrico o in una
fabbrica di scarpe, vista la quasi assenza di contatto con il pubblico, il suo
isolazionismo simbolico e reale dovuto al Hijab, non sarebbe stato per il titolare un
problema, né per il direttore del personale preposto all’assunzione.
Evidentemente questa donna
musulmana, non paga di aver sbattuto la testa una, due, tre, quattro o più volte
contro il muro dei suoi pregiudizi religiosi contro la società laica, vuole
imporre a prescindere di essere accettata, nonostante l’isolazionismo religioso
causatole dal Hijab,
in molti ambienti laici, lavorativi l e non, volendo
presuntuosamente piegare suo credo
religioso la laicità ostruttiva del tessuto lavorativo italiano.
Con questa scelta di “coming out”,
visto che il suo nome circola in rete,
forse sono in molti ad auspicare che faccia fatica, o che le sia impossibile
trovare lavoro, proprio per aver mostrato il suo integralismo, che l’ha isolata
dal consesso civile italiano, e anche per via dei danni economici e di immagine
che potrebbe causare a questa azienda, dove una
dipendente ha compiuto la
l”leggerezza” di ribadirle una realtà e
una verità che ben conosceva e che non
ha mai voluto accettare: ossia che senza
Hijab sarebbe stata assunta
senza problemi. Mentre questa dura, vorrebbe l’assunzione alle sue condizioni,
non a quelle del datore di lavoro. Con questa sua volontà “violenta” di imporre
il suo pensiero, invece che avere la ragione di comprendere le regole del
mercato, oggi è il Hijab, domani poteva fare storie perché doveva distribuire
volantini dove in qualche supermercato
si effettuano promozioni su carne di porco, animale considerato immondo
dall’Islam, costei nuovamente per motivi
religiosi avrebbe forse impiantato nuove grane, correndo a “piangere”
dall’avvocato, accusando nuovamente l’azienda di discriminazione su base
religiosa.
Non va dimenticato che in Italia esistono centinaia,
se non migliaia di donne egiziane che hanno scelto di integrarsi nella società,
rimando delle devote ad Allah e all’Islam, scegliendo un percorso neutro, ma
non per questo avverso al Corano, sapendosi integrare nei posti di lavoro e nel
tessuto culturale, facendosi accettare anche in virtù del proprio credo
religioso, non necessariamente esteriorizzato in forma radicale, rimanendo
religiosamente legate, nel consesso privato e nei luoghi preposti al culto,
all’ultima delle tre religioni Abramitiche.
Se a questa donna musulmana la realtà
laica italiana sta stretta non è obbligata a rimanere in Italia, ma può tornare
nella nazione da dove anni prima sono partiti i suoi genitori, sentendosi così
accettata e trovando lavoro in un ambiente dove il Hijab non solo è tollerato, ma accettato, in modo
voluto e/ o imposto.
Alla fine anche se nata in Italia è figlia di una
cultura religiosa diversa da quella vorrebbe imporre, oggi. Se per se stessa la
cosa sta bene, contenta lei, ma un domani, forse vorrebbe imporre a tutte le
italiane – a cui il passaporto stato
rilasciato già al momento della nascita, o quando erano minorenni, – l’imposizione del Hijab, memore dei reiterati rifiuti che ha ricevuto
nel corso del tempo, solo perché non ha voluto utilizzare con ragione e
discernimento l’intelletto che Allah l’ha dotata, ma in quel caso la colpa non
è né di Allah e né tanto meno degli italiani, ma esclusivamente sua., perché
come dice un proverbio:
“chi è causa del suo male, pianga
se stesso”.
Marco Bazzato
14.04.2013
(1)
http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/milano-togli-velo-se-vuoi-lavorare-sara-mahmoud-denuncia-discriminazione-1529432/
(3)
http://www.you-ng.it/news/locale/item/8432-sara-la-ragazza-che-nessuno-assume-perch%C3%A9-porta-il-velo.html
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