lunedì 16 gennaio 2012
Il gabbiano e il capitano – ai veri capitani
Il gabbiano volava attento scrutando il mare. Le onde nascondevano le vite sofferenti. I pesci morti, saliti in superficie, imputridivano al sole d’agosto.
Il vecchio fissava sfiduciato la dipartita che avanzava.
Nessun suono proveniva dagli abissi, a parte i palpiti malati delle onde che si infrangevano a meno di mezzo miglio sulle banchine del porto.
I ricordi si fondevano con il lamento dell’uccello che volteggiava affamato, come se l’uomo fosse il responsabile della penuria del suo nutrimento vivo.
Il lupo di mare da lustri aveva dismesso la pipa di radica, lasciata nell’angolo dei ricordi. Teneva tra le mani un logoro pacchetto di Black Cavendish, e fissando la distesa d’acqua, cercava, come il gabbiano, un qualcosa a cui aggrapparsi per sopravvivere.
Erano passati decenni da quanto si era imbarcato, dopo l’Accademia, per dare il suo contributo alla salvezza di quel liquido azzurro che bagnava indistintamente uomini di ogni razza e colore, navigando su onde di ogni dimensione, attraverso l’infinità placida o in tempesta.
Il mare era quello di sempre, ma, il suo mare, non esisteva più. Era stato svuotato giorno per giorno, spogliato delle sue specie, soffocato dall’ingordigia scientifico-predatoria.
Era il suo ultimo viaggio. Poi la senescenza. Ora,ad accompagnarlo solo nostalgie che lo opprimevano, come se il cuore avesse preso due cuccette: una per disperazione e l’altra per sconforto.
I Le rimembranze lo assillavano come una nenia funebre che lo scortavano verso l’ultima meta: la desuetudine, con sogni ormai inumati. Nel cuore il peso per quel mondo azzurro asfissiato, soffocato e contaminato dai rifiuti dell’essere umano.
Il gabbiano smise di volteggiare sopra l’imbarcazione, e planò con grazia sul ponte di prua. Il capitano lo scorse, lì. I loro sguardi si incontrarono. La testa dell’animale si mosse come in un segno di dinego e sconforto. Il vecchio istintivamente gli rispose con un mesto cenno d’assenso del capo.
E l’uomo vide attraverso gli occhi del gabbiano.
Vide la devastazione e la distruzione. Vide le profondità sorvolate e osservate a pelo d’acqua, quando il volatile si lanciava radente per prendere con il becco i pesci che guizzavano sulla superficie. Il capitano vide l’equilibrio naturale sconvolto, con l’ecosistema terracqueo in claudicante per lo sfruttamento intensivo.
Tutto era cambiato.
Il comandante stava volando grazie al gabbiano, percependo il dolore della vita morente che vedeva nel suo peregrinare inutile.
Altri gabbiani erano morti, uccisi, avvelenati o annegati, soccombendo per la penuria di cibo. Li vedeva tutti. Non conosceva i loro nomi, ma sapeva che comunicavano tra loro maledicendo il genere umano per gli sfruttamenti e le devastazioni, che da anni avevano raggiunto picchi di non ritorno.
Il capitano sentì nella mente un canto che si tramandavano gabbiani “I mari, Gaia e l’Uomo”, e ne rimase affascinato.
“Padre e madre mare, mio sposo, fratello e sorella, fonte di vita dall’inizio della Creazione. Mi cullasti e mi sfamasti con i doni che ci permettevi di prenderci. Dal cielo ti ho visto, sotto le nubi, durante la tempesta, quando le tue acque erano placide e tranquille. In te ho visto l’uomo inabissarsi alla ricerca di una nuova terra, per fuggire alle atrocità della guerra. Su di te si sono combattute battaglie, sono affondate galee, galeoni cariche di dobloni e sete preziose. Tu, padre e madre, tieni celati negli abissi immensi tesori persi dall’uomo, o creati dalla stessa Madre Gaia.
Per millenni sei stato solcato, abitato da demoni e mostri, usciti dalle paure di quanti volevano affrontare la tua ira, per spingersi oltre il mondo allora conosciuto.
In te sono periti ardimentosi commodori, schiavi, equipaggi composti da nobili decaduti e ladri condannati. Tu, padre e madre, genitore di tutti noi, da te le creature sono giunte, emergendo alla ricerca di una Terra promessa.
Oggi i conquistatori si sono impadroniti di te, ti hanno schiavizzato, sfruttato, seviziato,sterminando le creature che regnavano prima della loro venuta, scagliandole nell’oscurità delle memorie di un mondo perduto”.
Gaia,salvati, rigenerati da costoro, e salvali da se stessi –
Un’onda anomala scosse l’imbarcazione, ma i loro sguardi non si interruppero. In quell’unico istante era come se fossero un tutt’uno con il Creato.
L’occhio sinistro del capitano si inumidì. Una lacrima gli solcò la guancia,come una ferita che gli sconquassava il cuore di dolore.
Era lui, l’Uomo il responsabile di tutto. II responsabile delle vette scalate e degli abissi creati sul pianeta. È l’Uomo, l’animale distruttore di troppe specie, il nemico del globo, alleato con una cecità che non riesce a voler vedere il nuovo sorgere del sole. L’Uomo, l’essere che da meno di un secolo e mezzo fissa il crepuscolo,fingendo di guardare al placido oceano del nuovo giorno che potrebbe non giungere più.
La lacrima continuò a scendergli, ora come una cicatrice che si sarebbe portato appresso durante gli ultimi anni del suo errabondare con la mente.
Il capitano sbattè le palpebre, e quel legame si dissolse, ma come un eco perdurò nel cuore.
Il gabbiano era volato via. Sul ponte di prora era rimasta una piuma, posatasi sul metallo con la delicatezza di un tuono.
–Mare Nostrum continua a sanguinare le ferite ricevute –
Il tempo aveva ripreso a scorrere.
Il comandante avrebbe voluto fumare, ma la vecchia pipa, consumata come lui, era un oggetto polveroso, e anch’esso aveva fatto il suo tempo. Tra poco anche egli avrebbe detto addio al suo mondo, e il declivio che giungeva odorava di stantii rimorsi per le gesta incompiute.
L’imbarcazione attraccò. Avvenne il passaggio di consegne con il nuovo capitano – l futuro guardiano del mare immortale – e il vecchio se ne andò.
Il gabbiano ritornò e si mise a volteggiare su vecchio lupo di mare. I loro sguardi si incrociarono per un ultimo istante. Poi entrambi fissarono il nuovo comandante e si dissero mentalmente all’unisono:
“Il mare sarebbe vissuto per sempre!”.
Marco Bazzato
16.01.2012
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