lunedì 23 marzo 2020
Covid-19: sospesi in un limbo
Credo che mai come
adesso, non solo l’Italia e gli italiani, si sentano e ci sentiamo tutti
sospesi in limbo. Dentro una bolla d’aria dentro le nostre case, in attesa che
questo scherzo della natura, sempre che sia stato solo un fottuto scherzo del
destino, abbia fine.
Già! Siamo chiusi in
casa. Lasciamo perdere per il momento chi in questo momento può, od è
costretto, per varie motivazioni, ad andare a lavorare. In tutta onestà non si
può affermare che costoro siano dei privilegiati, dei baciati dalla Dea
Bendata. Primi tra tutti i medici e tutto il personale sanitario che a seconda
delle loro mansioni, combattono in prima linea questa guerra per tutti noi.
No. Il motivo di queste
mie parole è rivolto a chi sta in casa. Persone sole, coppie di anziani.
Famiglie con figli, grandi e piccoli. Famiglie con i genitori lontani o con i
figli vicini, costretti a guardarsi attraverso lo schermo di uno smarphone.
Famiglie con dei cari affetti da diverse patologie, diversamente abili. Insomma
quella varia umanità di cui di solito, se li incrociamo lungo le strade, o
fingiamo di non vederli, o se li vediamo, distogliamo il capo dall’altra parte,
dicendoci tra di noi: meglio a loro che a noi, che a un nostro caro.
Mi rivolgo a quanti,
abituati a uscire, a vivere la routine di tutti i giorni: uscita di casa,
lavoro, aperitivo la sera, prima di rincasare, palestra, cena e poi nuovamente
fuori con gli amici o con i compagni di ogni giorno, o come va di moda oggi,
che si sono trasformati in runner improvvisati o che, non so quali dei due sia
il peggiore, sono runner patologici, che è un disturbo riconosciuto dalla
psichiatria – basta cercare su Google: “ossessione per il correre psicologia”
Quelli che magari oggi, sono quelli che si lamentano più di tutti per la
perdita della loro libertà. Che si lamentano per lo stravolgimento della vita e
della quotidianità.
Ebbene, oggi, tutti,
non solo costoro, sono sospesi in questo limbo d'incertezza.
A quanti si lamentano
immotivatamente di questi futili motivi, per la perdita della libertà o di
quella che prima credeva essere libertà, perché la vera libertà, che piaccia o
no non esiste mai, se non si è liberi dentro, è giusto ricordare che nella vita
ci sono delle priorità che vanno oltre il banale piagnisteo perché non si può
fare la partita di calcetto, perché non si può fare la settimanale partita a
tennis con gli amici. Non on si può andare a prendere l’aperitivo in piazza
alle 18.00, appena terminato il lavoro, ola modaiola corsetta, emersa proprio
con il manifestarsi del Covid-19. Che sia un effetto collaterale del virus?
La più grande priorità
che abbiamo in questo momento è quella di non cedere agli inutili e banali
sconforti della quotidianità perduta.
Non è cosa facile per
nessuno.
Però in questo momento
ci sono delle priorità da salvaguardare: noi stessi e la nostra salute, non
solo fisica, ma soprattutto mentale.
Già. Forse in molti
ancora non se ne rendono conto o se iniziano a rendersene conto, stanno
iniziando a realizzare cosa significa perdere tutti i punti di riferimento.
Quando presente e futuro appaiono nebulosi e oscuri, perché le presunte
certezze che si credeva di avere si sono frantumate come neve al sole, e lo
specchio della vita ora ci riflette solo le nostre immagini spezzettate in
migliaia di frammenti, dove non sappiamo più come ricomporre noi stessi.
Questi sono i momenti i
cui vediamo chi siamo. Cosa abbiamo dentro e quali sono le nostre riserve
nascoste di volontà e soprattutto di speranza. La speranza. Che altro non è che
l’ultimo “folle” baluardo utopico, per non cedere allo sconforto, all’ansia,
alla depressone, alla tensione, allo stress, agli attacchi di panico e
all’intolleranza di chi sta, rinchiuso in spazi angusti, solo, con poche
persone o peggio ancora, con molte, rispetto agli spazi a disposizione.
Onestamente? Non credo
che esista una ricetta valida per tutti per superare questi stati emotivi e
claustrofobici. Questi stati ansiosi e depressivi, che possono colpire
chiunque. Questo stress che potrebbe far venire fuori qualche febbriciattola
atipica, quella linea di febbre che ti fa spaventare e credere di essersi
beccati la “peste del ventunesimo secolo”.
Oppure, io non ho una
ricetta e un consiglio da dare a nessuno, in quanto ogni persona è un universo
a se; un micro e un macrocosmo emotivo che si muove con leggi rispettando delle
leggi universali, iscritte appositamente però per ognuno di noi in ognuno di
noi e che ogni singolo deve ed è costretto, oggi più di ieri, ad imparare,
velocemente conoscere, riconoscere mettendo in pratica le adeguate strategie di
sopravvivenza, per supportarsi le proprie “difese immunitarie psicologiche” e
di riflesso anche e quelle fisiche, dato che le une e le altre sono
indissolubilmente coniugate.
Ognuno, per
sopravvivere in questo limbo deve imparare a conoscere le proprie debolezze e
gestire al meglio le proprie risorse.
Io, per assurdo, e on
voglio certo elogiarmi, sono una persona “fortunata”, in quanto sono stato
baciato dal demone dei ricoveri ospedalieri fin dal primo mese di vita. Non sto
a tediavi circa le mie traversie, come fossero un vanto o una vittoria Sono
dati e fatti non essenziali per voi. Però forse potrebbe esservi utile la mia
esperienza, che in parte, piaccia o non in molti, se non tutti, almeno una
volta nella vita, sono stati costretti a sostenere: l’attesa davanti a uno
studio medico. L’attesa per il referto – di vita o di morte – di un referto
diagnostico, che potrebbe significare vita o morte. Quello di morte l’ho
ricevuto più di una volta, ma oggi, per ora sono ancora qui. Ma anche questo
non è importante.
Io quando oggi, ma non
solo oggi, lo sconforto mi assale, e da normale essere umano, succede,
visualizzo nella mente quei momenti. Quegli istanti eterni che non avevano
fine. Nella mente vedo e rivedo il film dove ero protagonista e spettatore.
Quelle lancette dei secondi che si muovevano nel quadrante dell’orologio
affisso alla parrete del quarto Piano del Day Hospital della Pediatria di
Padova o nell’altro reparto, che poi ho avuto il “piacere” di visitare, per
soggiorni più o meno lunghi e checché ne dicessero gli altri degenti, il
“rancio ospedaliero” nonostante la totale assenza di gusti e sapori, per me
sono sempre stati banchetti stupendi, se ci stavano le pietanze di mio
gradimento, naturalmente.
Ebbene, oggi, ringrazio
quei momenti. Ringrazio quelle lunghe attese. Sì, le ringrazio perché mi hanno
dato quel bagaglio esperienziale che mi permette di vivere questo limbo come un
“già vissuto”, in quanto parte del mio essere. E in tutta onestà, credo che
ognuno di voi, donne, uomini, giovani, adulti o anziani, avete sicuramente
provato quel “tempo eterno dell’attesa”. Quel tempo e dentro di voi. Certo,
potrebbe far male riviverlo, e potreste anche negarlo ma è in voi e dovete solo
andare scovarlo e farlo uscire da quell’angolo buio della rimozione dove lo
tenete celato, rapportandolo al vostro presente e, almeno così accade a me, e
potreste sentire le tensioni psicologiche sciogliersi, o per lo meno
allentarsi.
Come dico sempre a me
stesso, se si fa una scala anche di tensione emotiva o psicologica da 1 a 10,
dove 10 sta per esplosione, e si riesce a farla scendere anche solo di un
punto, è un piccolo grande passo per noi stessi.
Oggi siamo rinchiusi
entro quei piccoli passi, siamo costretti nelle nostre case, nei nostri
appartamenti, nelle nostre abitazioni. abbiamo una possibilità che non era mai
stata data prima d’ora: riscoprire e riscoprirci. E la grande sorpresa potrebbe
essere che siamo migliori e più forti di quello che credevano di essere.
Dobbiamo solo accettare
quella forze, credendo in noi stessi, scoprendo, anche se può far paura, quelle
forze nascoste e celate dentro la mente di ognuno. Ce lo dobbiamo in primis e
non per Ultimo per chi amiamo. Non farlo significherebbe perdere una magnifica
opportunità prendere coscienza ch abbiamo delle riserve emotive molto più
grandi di quelle che potevamo immaginare. Ciò che conta è avere il coraggio di
andarle a cercare. Sono lì. Ci aspettano!
Marco Bazzato
23.3.2020
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domenica 22 marzo 2020
Pandemia di Covid-19, non durerà poco, purtroppo!
Ormai è
chiaro, la quarantena italica, ma non solo, non terminerà ai primi di aprile.
Non terminerà nemmeno in maggio. Probabilmente manco in giugno o luglio. Ci
sono troppi indicatori che volgono verso i tempi assai lunghi. Gli allarmi dei
virologi. Il fatto che il virus stesso potrebbe, rispetto a quello cinese,
essere mutato i Lombardia e non si sa se ha subito mutazioni, nel corso dei
vari “attraversamenti delle frontiere”, adattandosi alle diverse specificità
dei singoli Paesi. Nessuno lo sa. Gli stessi virologi brancolano al buio.
Il
vaccino, semmai ci sarà non sarà disponibile prima di un anno e mezzo. Sono i
tempi della sperimentazione e dell’approvazione, prima di essere inoculato a
cittadini.
Ammesso e
non concesso che un vaccino possa essere funzionale a livello planetario. E
presumo che anche gli stessi biologi e virologi che lo stanno studiando,
nutrano dei seri dubbi. Proprio per questo motivo le ricerche sono condotte
dalle equipe dei singoli Paesi. Non tanto, presumo e forse anche gli stessi
virologi lo presumono, per creare un vaccino che possa essere standard, ma
perché potrebbe essere necessario, viste le mutazioni, crearne di specifici per
le singole nazioni o gruppi anche ristretti di popolazione, suddivisi per aree
geografiche.
Il quadro
presente e futuro è a tinte non grigie, ma letteralmente nere.
Rimane un
altro problema fondamentale che nessuno ha saputo dare una risposta specifica.
Gli
asintomatici.
Ossia. Se
una persona è asintomatica e quindi si muove liberamente, in virtù del fatto
che sta bene, quanti continua ad infettarne o quanti può averne infettati nelle
settimane passate? Nessuno lo sa. E soprattutto, quanti continuerà ad
infettarne nelle settimane e nei mesi futuri, anche se uscisse di casa solo per
lo stretto necessario, la spesa e la farmacia, in quanto essendo asintomatico
potrebbe tranquillamente uscire senza alcuna protezione e se non tenesse le
distanze minime, anche avendo una carica virale modesta, la possibilità che sia
passata ad altri, non è pari rischio zero. Quindi, per la legge dei grandi
numeri, l’incognita esiste. Ricordiamoci che in Cina è bastato un solo caso per
far partire tutto.
Premetto,
prima di proseguire, che non sono un virologo, ma quanto sto scrivendo è frutto
delle deduzioni che sto facendo in questi giorni e di quanto ho elaborato nella
mente, a seguito delle centinaia di articoli di varia natura letti da quando è
iniziata l’epidemia in Cina.
Il mio
auspicio più grande è di essere totalmente smentito dai fatti, da qui ai
prossimi mesi.
Osservando
però la curva di diffusione a livello europeo, la cosa non induce
all’ottimismo, perché le crescite esponenziali nei Paesi europei aumentano di
giorno in giorno, di ora in ora e al momento non si hanno dati univoci, sia
sull’effettiva diffusione non solo in Europa o negli Stati Uniti , ma anche i
Africa del Covid-19.
In molti
non riescono a comprendere appieno quanto in Italia, ma non solo, sia grave la
situazione sotto il profilo sanitario. Lasciamo perdere al momento l’aspetto
economico e finanziario, dove sebbene non secondario, perché la gente deve pure
vivere e mangiare, pagare le bollette e tutto il corollario che ci sta attorno,
in molti non hanno chiaro che per via delle emergenze negli ospedali, tutto il
sistema sanitario è virtualmente in stasi, fermo. Bloccato. Eppure le persone
si ammalano lo stesso. Le donne devono partorire. Le persone in dialisi o che
hanno altre patologie devono continuare ad essere seguite e via di seguito.
Tutto però oggi cammina a velocità ridotta.
La
macchina sociale e della società, non solo italiana, si è fermata. O se non si
è fermata completamente, si muove con al lentezza di una lumaca, in quanto ogni
passo verso un’accelerazione, potrebbe portare verso l’accelerazione stessa
dalla diffusione dell’epidemia. Insomma è un enorme buco nero che sta
inghiottendo la società italiana e on solo. Ogni giorno che ci piaccia o no, i
cittadini italiani ed europei stanno al bordo dell’orizzonte degli eventi, dove
il centro del buco nero è la malattia, la terapia intensiva e infine la morte.
Sebbene è giusto ricordarlo, dati di ieri della Protezione Civile Italiana, il
numero di morti PER Covid-19 è dello 0,8%, il restante 91.8% sono morti CON
Corona Virus, ossia che avevano altre gravi patologie e che il Covid-19 ne ha
“solo” accelerato la morte. Ma sono ancora cifre indicative, in quanto non
validate completamente dall’Istituto Superiore di Sanità.
Sussiste
però anche un altro problema, che al momento viene sottostimato. Quanto le
singole famiglie possono avere la forza emotiva e psicologica di rimanere
chiusi all’interno delle loro abitazioni? Certo, per chi vive in una casa
singola con giardino, con del verde all’interno è come un carcerato che può
avere varie ore d’aria nell’arco di una giornata. Ma per coloro che sono
confinati in appartamenti piccoli per il numero dei loro componenti? Quanto
tempo passerà prima che questi sviluppino delle fobie, delle intolleranze,
l’uno verso gli altri e che gli stati di tensione famigliare si esasperino?
E poi, il
rimanere confinati dentro gli appartamenti, piaccia o no, fa partire l’ennesimo
circolo vizioso dell’abbassamento del sistema immunitario, esponendo i soggetti
più deboli al rischio di malattie, infezioni, dove anche un semplice batterio
potrebbe causare anche polmoniti o anche solo altre patologie, certo meno
gravi, ma che destabilizzano situazioni già precarie.
Senza
dimenticare che vi viene continuamente ripetuto di sanificare le superfici
della casa, per evitare il diffondersi del virus. Vero. Però ci sta anche il
rovescio della medaglia. Le nostre case rischiano di diventare ambienti quasi
asettici. Riducendo in modo considerevole il numero di batteri presenti negli
ambienti, il corpo umano potrebbe smettere di produrre quegli anticorpi che
aveva creato, come normali difese, rendendo il nostro sistema immunitario meno
resistente, facendo partire un nuovo circolo vizioso.
E quando
tutto ciò finirà, nessuno sa tra quanti mesi, quanto saranno indeboliti i
nostri corpi, proprio per via forse di questo eccesso di igiene?
Il sole.
Non dimentichiamo che l’essere umano ha bisogno anche della luce solare e stare
giorni, settimane o mesi, indebolisce non solo il sistema immunitario, ma anche
l’apparato scheletrico, soprattutto negli anziani, ma non solo, causato sia
dall’assenza della luce solare diretta e anche dall’assenza di movimento. Di
quel minimo di 5000 passi al giorno che sarebbero necessari per evitare
l’accumulo di peso e per mantenere tonici i muscoli.
Ho
calcolato che, muovendomi ne mio appartamento, oggi non supero i 500 passi,
meno di trecento metri nell’arco delle ventiquattro ore. Quando, come ho
scritto sopra, il minimo dovrebbe essere di almeno 5000.
L’uomo si
è evoluto fino alla forma attuale nell’arco di milioni di anni, adattandosi al
cambiamento dell’ambiente circostante e adattandolo alle proprie esigenze. Oggi
ci viene chiesto di fermare improvvisamente, non si sa per quanti mesi, in
quanto anche se la pandemia finisse a fine giugno in Italia, vanno considerati
gli altri Paesi e con la riapertura della frontiere, anche l’arrivo in Italia
di un solo asintomatico, potrebbe potare alla ripartenza del tutto, nuovamente.
Perciò è anche probabile che per dichiarare finita la pandemia ci vogliano
almeno dai due ai tre anni. Non meno. Sempre che no si ripresenti poi a cadenza
periodica, con forme locali più o meno virulente.
Tutti gli
indicatori che ho analizzato in questi periodi non inducono al facile ottimismo
e credo che anche il nostro governo sappia che tutto ciò potrebbe avere almeno
una durata di sei mesi. E ciò lo si potrebbe dedurre da questo documento,
trovato in rete: http://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/D20014.pdf?fbclid=IwAR0clBvESee0-R516PVDLTRqBHPwOTzBuL0I2JmYfIgRc6g9zDAtXo_wL64
del Servizio Studi della Senato della Repubblica Italiana che recita
espressamente: “Per tutta la durata del periodo emergenziale, fissato in sei
mesi dalla Delibera del Consiglio dei ministri 31 gennaio 2020 (dal 31 gennaio
al 31 luglio 2020)…”, Articolo 6, pagina 23 del file PDF.
In
sostanza ci attenderà un lungo periodo di “mutazione” non solo legato al fatto
di essere confinati in casa, ma anche di “mutazioni emotive, caratteriali e
comportamentali, che incideranno a lungo alle sula psiche e sulla salute fisica
dei singoli cittadini.
Ho, tra
gli innumerevoli altri quesiti che mi girano in testa, due e domande: se alla
fine fossimo costretti, a livello planetario ad arrivare all’immunità di
gregge? Sempre che ci si possa arrivare, nel caso che il Covid-19 non mutasse,
quanti saranno i morti in totale?
All’inizio
dell’epidemia, a gennaio, scrissi che se sarebbe stata confermata la media del
2,3% della percentuale di morti, il numero sarebbe stato attorno ai 300
milioni. Il genere umano non si estinguerebbe per questi “numeri esigui” in
rapporto alla popolazione mondiale. Però significherebbe solo che il mondo come
lo abbiamo conosciuto fino a poche settimane fa, sarebbe un modo e un avita
personale e sociale, completamente differente dal quella odierna e che sulle
ceneri della vecchia società , si sarebbe costretti a costruire in nuovo
modello umano e sociale.
Per
vedere se tutto ciò sarà vero, e spero veramente di essere in palese errore, i
prossimi due o tre anni, per i “sopravvissuti”, saranno fondamentali.
Marco
Bazzato
21.03.2020
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martedì 25 febbraio 2020
Perché trovo più che legittimo il panico da Corona Virus?
Lo scrissi fin dall’inizio: il Corona Virus, che in seguito sarebbe stato
ribattezzato Covid-19, mi fece immediatamente venire in mente il romanzo di
Stephen King, “L’ombra dello scorpione”, di cui in tempi diversi lessi sia la
versione “breve”, così come quella estesa. Con la “piccola” differenza che nel
romanzo del Re dell’horror il tasso di mortalità era del 99,4%, contro uno
striminzito 2,5%, stando alle mie prime stime attuali, già dai primi giorni.
Stime in questi giorni rivedute al ribasso.
Le dinamiche comportamentali non sono differenti e mi riferisco al romanzo
di Tom Clancy, “Potere Esecutivo”, dove il
Presidente degli Stati Uniti, Jack Ryan, mise in atto il piano estremo,
denominato “segregazione”, quella che noi, volgarmente, chiamiamo quarantena,
con le stesse identiche dinamiche che ha prima applicato la Cina, nella
provincia epicentro dell’epidemia e poi successivamente quanto sta accadendo
oggi in Italia, con due regioni, con alcuni comuni in quarantena.
Il principio è lo stesso: segregazione, come dicono gli americani, dato che
siamo assai anglofoni, quando ci fa comodo.
E ora veniamo al punto essenziale, perché trovo più che legittimo e
giustificato il panico che si è scatenato nella popolazione. Per un motivo
molto semplice. Perché il principio di precacauzionalità che legittimamente
vale per i singoli Stati, per proteggere la salute dei cittadini, come loro dovere.
Ebbene questo principio, ha avuto, come era lecito e legittimo aspettarsi,
conseguenze sociali ed economiche a cascata. Non va dimenticato che in tempi
oscuri, come sta accadendo da quasi un mese, vale, sia per gli Stati che per i
singoli cittadini, il principio del “Si salvi chi può” oppure “Ognuno per se e
Dio – per chi ci crede, naturalmente vale per tutti, dal macro al singolo.
Quindi è inutile stare tanto a menarcela ed ascoltare i media, i
giornalisti e soprattutto i quotati esperti in tali materie, che nemmeno sono d’accordo
tra di loro, che continuano a lanciare appelli alla calma e non farsi prendere
al panico. “Di ad una persona di non fare una cosa e quella persona – o quella
società – si comporterà in modo diametralmente opposto. Quindi, un po’ di
psicologia inversa non farebbe male da parte di tv e stampa e social network.
Oggi ci si stupisce dei supermercati vuoti . Sarebbe stato assurdo se fosse
stato il contrario. Già, perché soprattutto
i cittadini che si trovano nelle zone interessate alla “segregazione”, adoro il
termine del romanzo di Tom Clancy, essendo letteralmente confinati entro il perimetro
delle zone interessate è normale che, potendo recarsi solo a fare spese,
facciano incetta di generi di prima necessità, fottendosene, legittimamente
delle necessità e dei bisogni altrui, seguendo il motto latino: “Mors
tua vita mea”, “La tua morte è
la mia vita!”.
E cos'altro dovrebbe fare il singolo cittadino? Farsi fregare il cibo o il
disinfettante, la mascherina – che dicono non serva un emerito cazzo,
oltretutto – e lasciare che l’acquisti qualcun altro? Per la serie: meglio che
stiano senza glia altri, piuttosto che rischi di rimanere senza io, questa è l’amara
e naturale verità del dell’animo umano, a tutti i livelli, da quello politico,
chiudendo la frontiere, non facendo atterrare
i voli, ma non i barconi della ONg, perché in Italia siamo dei geni,
salvo poi metterli tutti in quarantena, a spese della collettività.
Già, perché il ragionamento
politico, è che crepino a casa loro e non vengano ad appestarci in casa nostra,
salvo poi dirsi indignati quando siamo noi che rischiamo di andare ad appestare
in casa d’altri, allora ci sentiamo offesi, se legittimamente ci sbattono la
porta in faccia! Quanto siamo patetici e ridicoli, no?
Ma se lo fa il privato cittadino, che non vuole accostarsi allo presunto untore straniero o di un’altra
regione, ecco che da infingardi, alcuni
gridano al razzismo o altre amenità varie, dimenticando che lo stesso principio
di precauzionalità applicato su scala individuale o locale. Ma ciò scatena l’esecrazione
di politici e ben pensanti, che pochi minuti prima avevano ordinato lo stesso,
su scala internazionale, regionale o comunale, impedendo l’accesso o l’uscita
delle persone dalle zone interessate, oppure chiudendo corridoi aerei o
ferroviari.
Diciamocelo, il Corona Virus ci fa cagare sotto tutti, nessuno escluso. Sia
esso il politico, come l’ultimi dei tangheri ubriaconi di qualche villaggio
sperduto in mezzo ai monti.
Perciò ribadisco il concetto: l’altruismo
in certe situazioni può significare rischi per se stessi e per i propri cari. E
smettiamola di fare gli ipocriti: ci si
dispiace solo se si ammala o muore una persona vicina, un amico, un
parente, un conoscente, ecco che allora la cosa diventa una tragedia e un
dolore personale. Per tutte le altre morti, vale la frase che viene attribuita
ad “Acciaio – in italiano – Stalin: “Un
morto è una tragedia, un milione di morti sono una statistica”, ecco perché a i
morti altrui, checché se ne dica
pubblicamente, solo per convenzione sociale, de facto, se non direttamente o
indirettamente collegati, non ce ne può fregare di meno.
Ora, dopo questa immersione nel cinico e nel pragmatico, veniamo alle
presunte buone notizie, se ce ne sono.
Il virus non è molto mortale, il tasso di mortalità non supera il 2,3% e
ciò significa che se anche contagiasse tutti gli abitanti del terzo pianeta del Sistema Solare, per chi non
lo sapesse, questi è il pianeta Terra, il numero totale dei morti non supererebbe
i 300 milioni, rispetto al numero di abitanti attuale, la continuazione della
razza umana sarebbe comunque garantita. Niente estinzione, oppure solo
rimandata.
Un’ altra nota “positiva”. È un virus che in minima parte aiuta i vari
sistemi pensionistici, in quanto la maggioranza delle vittime sono persone
molto anziane – sovente con già malattie
croniche e scarse difese immunitarie e
il Corona Virus o Covid-19 gli assesta solo un piccolo colpetto,
scaraventandoli all’altro mondo – quindi
pensionati e ciò garantisce, seppur in modo al momento minimale, minori pensioni
da erogare agli ultrasettantenni. Insomma, una forma letale dalla vita di “Esodati!”.
IL tasso di guarigione sembra essere, il condizionale è d’obbligo, dato che
al momento non ci sono certezze, assai
elevato, oltre l’80%. Sembra che i giovani, sotto una determinata fascia di
età, se lo possano beccare, ma senza alcun tipo di conseguenze.
Insomma, per la serie, ci sta un’anarchia
di informazioni scientifiche e mediche che sovente si contraddicono a vicenda, il
che porta a pensare che il famoso detto “La scienza non è democratica” di
Roberto Burioni, continui ad essere smentita dai fatti e i precedenti circa il fatto che la scienza è
democratica, sono innumerevoli, ma non è questa la sede di tale
approfondimento.
Che altro aggiungere: reputo in queste situazioni l’egoismo individuale un
diritto e un dovere civico per salvaguardare soprattutto se stessi e i propri
cari, tutto il resto è relativo.
Se qualcuno prova a dire qualcosa in senso opposto, basta pensare alla
reazioni delle borse, alle ingenti perdite che hanno subito in queste settimane
e di come sia schizzato alle stelle prezzo dell’oro, come bene rifugio.
Ciò che vale per la finanza, allo stesso identico cinico modo, vale per gli
Stati, le regioni, i comuni, le città, i paesini, i singoli cittadini, dove
ognuno, a modo suo, è tenuto a tutelare se stesso e propri interessi.
Ad una sola condizione: rimanere all’interno della legalità e poi tutto il
resto è un diritto ed è consentito.
Marco Bazzato
25.02.2020
venerdì 22 febbraio 2019
È morta la mia maestra delle elementari, Lidia Giantin Pietrogrande
Ho appreso giusto
poche ore fa della morte della mia maestra delle elementari, Lidia
Giantin Pietrogrande.
Per tutti noi,
almeno per i miei compagni della scuola elementare Leonardo da Vinci di Vigonovo,
sezione B, era semplicemente la “Signora maestra” o al massimo “Signora
Pietrogrande” – così si usava negli anni ’70 della fine del millennio scorso.
È quasi passato
mezzo secolo e i ricordi di quegli anni, come un geyser, emergono alla mente e
con essi il primo giorno della seconda elementare, quando ci fu cambiata sia
aula, sia insegnante.
Si entrava dall’ingresso
della scuola, si prendeva la rampa di scale alla sinistra, si salivano due
rampe e poi a sinistra ci si immergeva in un lungo corridoio con tre aule, la nostra, eravamo in ventiquattro, era la
prima: soffitto alto, pareti grigie fino ad un metro e mezzo e poi il resto bianco immacolato, tre
ampie finestre che davano sul cortile, da cui si intravvedevano due vecchi
platani.
I nomi li ricordo ancora tutti, ognuno banco
per banco. Eravamo disposti in quattro file composte da tre banchi, in ognuno
ci si stava in due, scomodissimi, con ancora i buchi per i calamai. Al mio
fianco R.E – citerò per motivi di privacy solo le iniziali. Dietro P.T e C.L.
Io e la mia compagna di banco ci trovavamo nella fila centrale, quasi innanzi
alla cattedra.
In quel primo
giorno entra in classe questa donna, ai miei occhi bambino sembrava altissima,
portava un lungo camicie nero . Si presentò dicendo: «Io sono la vostra nuova
mastra, il mio nome è Lidia Pietrogrande e fece un ampio sorriso. Dovrete
chiamami “Signora maestra”, poi prese il registro e fece l’appello.
Il primo insegnamento che ci diede fu che
dovevamo alzarci sempre dai nostri banchi, fare un passo di lato, quando
entrava un adulto, mettere le mani dietro la schiena, salutare e attendere un
cenno della mano, o un «Seduti.» prima di tornare nuovamente ai nostri posti e
sederci. All’inizio e al termine della lezione, quando entrava e quando usciva,
in coro: «Buon giorno, signora maestra.» e cosa più importante, noi maschietti
dovevamo cedere il passo alle bambine,in segno di rispetto nei loro confronti.
Così si insegnava in quegli anni.
Le lezioni iniziavano
con il segno della croce,una preghiera. La maestra ci faceva chiudere i libri
cinque minuti prima del termine del suono della campanella, sempre con il segno
della croce e una preghiera, poi, in fila indiana, con lei davanti, ci scortava
verso l’uscita e ci guardava uscire dal dall’edificio e scendere i quattro
gradini. Fatto ciò, con i testi scolastici al tenuti all’altezza del seno con una
mano, con l’altra teneva la sua borsa, si incamminava verso casa. Abitava in
una casa con un minuscolo giardino, un cancello bianco e all’interno, quando ci
andai per la prima volta, ebbi la sensazione di entrare in salotto che in
seguito avrei associato ai salotti inglesi della fine ottocento.
La “Signora
maestra”, voglio nominarla così anche oggi, perché così ho continuato a
nominarla in seguito, anche dopo più di trent’anni, era una donna d’altri
tempi, un’insegnante di vecchio stampo, proveniente da un’epoca che oggi
appartiene ai ricordi di quasi mezzo secolo fa.
Era una strana “madre”:
austera, severa ma tremendamente innamorata del suo lavoro. A modo suo credo
che abbia sentito sempre come figli suoi tutti gli allievi che ha avuto nel
corso dei suoi anni di insegnamento. Sapeva insegnare, spiegare con semplicità
e rigore, anche le materie che allora erano complesse per le nostri piccole
teste in perenne agitazione e formazione.
Tra i tanti ricordi che emergono in questo
momento, due sono predominanti. Il primo riguarda una lezione sulle nuvole, su
come riconoscere a prima vista le nubi temporalesche, il colore che queste
avevano prima dell’arrivo di un temporale – da queste parti i temporali che
giungono dal Garda sovente ancor oggi causano danni – e le differenti colorazioni
legate al fatto che potessero portare grandine. Ci disse che si poteva capirlo
sia conoscendo da che parte giungeva il vento, sia dal leggero grigiore della
medesime, indice di una differente temperatura al suo interno.
L’altro invece è
legato a due poesie: “La spigolatrice di Sapri” di Luigi Mercantini e “I
Pastori – Settembre” di Gabriele D’Annunzio. In entrambi i casi dovevo
impararle a memoria per il giorno seguente, ma casa non le studiai, troppo
impegnato a guardare i cartoni animati giapponesi. Fui però fortunato in quanto,
prima di giungere a me, aveva fatto il giro con gli altri compagni, così quando
venne il mio turno, riuscii a recitarle fino alla fine.
Era una donna moderna per la sua epoca, ma di
una modernità possiamo dire quasi aristocratica, austera. Una delle poche
concessioni che lasciava intravvedere sotto il nero grembiule, in pieno
inverno, erano i classici maglioni di lana che andavano di moda in quegli anni.
Sui lobi delle orecchie portava sempre un paio di orecchini, non vistosi, ma
anch’essi esprimevano un lato della sua personalità. Solo una volta ricordo d’averla
vista con i pantaloni lunghi, perché la sera precedente c’era stata una
furibonda nevicata e si presentò in classe – tutti ne rimanemmo stupiti –
indossando un paio di pantaloni scozzesi e scarponcini da montagna. Quella fu l’unica
concessione che fece in quattro anni, altrimenti indossava sempre lunghe gonne
di colori scuri o tinta pastello.
Era debole di gola. In quei quattro anni non
deve aver fatto più di una settimana di assenze. Spesso, infatti, arrivava a
lezione con qualche linea di febbre. Ciò non la scoraggiava e nonostante avesse
gi occhi lucidi, riusciva, credo anche grazie al suo carisma, a far danzare l’intera
classe a suo comando, dome un navigato direttore d’orchestra.
Aveva le dita
magre e affusolate, con la parte interna del pollice e il polpastrello dell’indice
perennemente imbiancato, così come parte della manica e del gomito del braccio
destro, dalla polvere di gesso che le rimaneva tra le dita. Aveva una bella
calligrafia, non solamente quando doveva scrivere sulla lavagna per noi
bambini, ma anche da “civile”, fuori dal ruolo di mastra, probabilmente perché sentiva
di essere “maestra” in ogni momento.
A mio avviso non
era una donna facile alla confidenza, però era una donna che sapeva far aprire le
persone, sapeva ascoltare, imponendosi con una dolcezza ruvida, ma mai cattiva,
una ruvidezza apparente, perché forse così è che per quattro anni la videro i
miei occhi e presumo anche gli occhi degli altri miei compagni della sezione B
di quegli anni.
Era una “Signora
maestra “ che badava al sodo. Come sapeva premiare, sapeva anche punire. Perché
in quegli anni il concetto di punizione della maestra era visto dalle famiglie
come un’estensione delle punizioni genitoriali, soprattutto se non ci si
comportava bene o se non si faceva il proprio dovere, come i genitori si
attendevano da noi, senza proteggerci, a differenza di ciò che troppo spesso
accade oggi, dove i figli sono innocenti a prescindere.
Un’ultima nota
prima di terminare queste righe in sua memoria: a casa conservo ancora il
piccolo Vangelo, con la copertina rossa, che regalò a tutta la classe, al
termine della nostra Quinta B.
Grazie, signora
maestra, ora sei con il tuo Giuseppe.
Marco Bazzato
22.02.2019
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lunedì 17 settembre 2018
Società Autostrade dovrebbe pagare (al momento) per il crollo del ponte Morandi?
È passato poco più di
un mese dalla tragedia del Ponte Morandi di Genova. Tragedia, sembrerebbe
ampiamente annunciata dalle Cassandre, dai gufi che quotidianamente appestano
il becero populismo disfattista italiano.
Tragedia che poi puntualmente, perché la
morte, per tutti e anche le disgrazie, più o meno annunciate, non arrivano mai
in ritardo, non perdono mai il treno, non saltano le coincidenze, ma le
tragedie, invece, cavalcano le coincidenze, gli incroci del destino bieco e
famelico di vite umane, tirandosi dietro quel carico casuale di morte,
sofferenza e strascichi inevitabilmente polemici, dove alla fine quanti erano
caricati dell’onere del controllo sapevano, ma pregavano che non avvenisse mai.
Ora però e qui mi
attirerò addosso una camionata di insulti e contumelie, in linea prettamente
teorica, Società Autostrade, che fa capo al gruppo Altlantia, con la
maggioranza relativa in mano alla famiglia Benetton, non dovrebbe essere
investita dell’onere di pagare la ricostruzione del Ponte Morandi e dei danni
materiali, morali e umani che questa “roulette russa” caricata a cemento
armato, ha causato.
Certo, Società
Autostrade era de è responsabile del Ponte che gli era stato dato, assieme ad
una buona parte della rete autostradale italiana, in concessione e che era,
come del resto lo è tutt’ora, responsabile delle strutture che gli sono state
affidate, però e qui casca l’asino, e le inchieste della Magistratura che si è
attivata un secondo dopo il crollo, sta facendo emergere una serie di corresponsabilità
circa il controllo della struttura, dove coloro che dovevano non solo vigilare,
ma mettere anche nell’avviso che la struttura
ormai era logora, da quanto sembra emergere, nelle loro relazioni, hanno
sempre evitato di scrivere chiaramente che gli stralli del ponte erano usurati
e che l’intera struttura necessitava non solo di manutenzione ordinaria, ma di
lavori straordinari di riqualificazione e messa in sicurezza.
Perché purtroppo, in
Italia, accade sempre così, chi è responsabile di qualcosa, soprattutto quando
si tratta di opere pubbliche, quando deve relazionare, relaziona in modo “untuoso”,
sfumato,relaziona in modo da dire e soprattutto non dire, in quanto anche il
dire troppo, potrebbe portare ad un
procurato allarme, nel caso che certe relazioni tecniche di ingegneri incaricati o periti, finiscano
nelle mani della stampa.
Ma siamo sicuri che le
responsabilità siano solo di Società Autostrade e quanti al Ministero delle Infrastrutture
dovevano vigilare sulla sicurezza del Ponte Morandi?
Voglio fare un’ipotesi,
lasciando fuori le perdite per i mancati pedaggi non riscossi nella tratta del
Ponte, da parte di Società Autostrade e i costi di messa in sicurezza che si
sarebbero dovuti sostenere e non parlo di manutenzione ordinaria, che erano
previsti per ottobre di quest’anno, ma i costi straordinari, non solo diretti,
in capo a Società Autostrade, con la chiusura a tempo indefinito del medesimo,
ma i costi indiretti per il porto di Genova, il sistema di trasporti locali,
sia dei cittadini che del movimento marci da e verso il porto di Genova, visto
che su quella struttura gravitava il maggior flusso di traffico?
Ammesso e non concesso
che Società Autostrade avesse deciso di chiudere il Ponte in entrambi i sensi
di marcia per un tempo indefinito, si può escludere a priori che non siano
giunte alle orecchie, in modo informale, senza comunicazioni scritte o
telefoniche, pressioni a vertici di Società Autostrade, affinché quel tratto,
nonostante gli evidenti problemi di instabilità che la struttura mostrava da
tempo, non venisse chiuso, onde evitare un danno economico non indifferente a
tutta la rete autostradale, stradale, non solo della città di Genova, ma dell’intera
regione Liguria e oltre, in quanto il porto di Genova è di rilevanza non solo
nazionale, ma internazionale, essendo il primo porto merci italiano?
Non è che Società
Autostrade sia stata troppo avventata, sotto l’onda emotiva della tragedia,
nello scucire, pochi giorni dopo 25 milioni di Euro, per venire incontro alle
prime spese degli sfollati che sono stati costretti ad abbandonare in fretta e
furia le loro abitazioni, entro la zona rossa, per il timore che quanto rimane
del ponte potesse causare una nuova tragedia?
Tirare fuori quei 25
milioni sull’unghia, non è stata un’ammissione di responsabilità, in assenza di
una sentenza definitiva che ne decretasse le effettiva responsabilità della
Società Autostrade?
Per quale motivo
dovrebbe essere Società Autostrade a dover anticipare i costi di ricostruzione
del Ponte crollato, in assenza di una sentenza definitiva?
Secondo l’opinione di
molti esperti, chiaramente assai più autorevoli dello scrivente, il ponte aveva egregiamente svolto la sua vita operativa, in quanto, secondo le tecniche e
tecnologie costruttive dell’epoca di fu progettato, agli inizi degli anni ’60,
del secolo scorso, iniziato nel ’64 e inaugurato nel 1967, dove all’epoca, con
il carico di traffico stimato in quel periodo, si prospettava una vita non
superiore ai cinquant’anni, anche se alcun asseriscono che così non è. Infatti
la ridda di opinioni contrapposte e contraddittorie continuano ad infiammare le
pagine dei giornali e le trasmissioni televisive dedicate all’evento.
Ma perché lo Stato ora
vorrebbe che il ponte venisse ricostruito a spese di Società Autostrade, anche
se dalle prime indagini della Magistratura sembrerebbero emergere delle corresponsabilità,
circa il mancato controllo della struttura? Certo, il ponte era ed è tutt’ora,
seppur sottosequestro in concessione a Società Autostrade, ma l’effettiva
proprietà non è di Società Autostrade, nonostante questa abbia l’obbligo di
esserne zelante custode, ma la proprietà è dello Stato Italiano, il quale
dovrebbe essere questi a farsi carico della ricostruzione del medesimo, salvo
poi, dopo sentenza passata i giudicato, non si sa dopo quanti anni, rivalersi
su Società Autostrade, obbligandola a risarcire la sua parte di danno, visto
che si presume che alla fine della
storia, tra circa una decina d’anni come minimo, sarà accertato che sussistono
delle corresponsabilità oggettive tra pubblico e privato e se il Ministero dei
Trasporti pretendesse di imporre a Società Autostrade la ricostruzione del
Ponte, dando per certa la sua totale colpevolezza, lo Stato, tramite il
Ministero dei Trasporti, andrebbe a sostituirsi alla Giustizia Ordinaria e al
ruolo non solo degli organi inquirenti, ma anche degli organi giudicanti, non
essendoci al momento, visto che le
indagini sono ancora nelle fasi preliminari e i tempi per arrivare al primo
grado, saranno assai lunghi, il Ministero dei Trasporti, andrebbe a travalicare
le sue prerogative istituzionali o per dirla in modo semplice, “mettendo il
carro davanti ai buoi!”
Società Autostrade è
responsabile del crollo del Ponte Morandi?
In base a quanto ascoltato e letto fino a questo momento, non me ne vogliano i famigliari delle vittime e
gli sfollati della zona rossa, non me la sento di puntare l’indice contro la
società concessionaria, additandola come unica responsabile dell’evento. Sono
troppe le variabili e rivoli di responsabilità diffusa che si possono essere
intersecati nel corso degli anni e che hanno fatto si che si giungesse a tale
situazione.
Il punto focale, a mio
avviso è un altro: allo stato attuale viviamo in una “società burocratica” che
quasi impone come modello comportamentale l’assoluta incapacità di prendersi,
innanzi alle professioni che si svolgono, il peso delle proprie responsabilità e
il fardello di dover decidere, un po’ come facevano gli imperatori romani nell’Anfiteatro
Flavio (Colosseo) quando “pollice su” significava vita e “pollice giù”,
equivaleva a morte, mentre la moderna società attuale impone a chi sta negli
snodi cardini delle responsabilità e del comando, il pollice orizzontale, ossia
in bilico, in precario equilibrio tra sì e no, tra vita e morte, in un eterno
processo di stasi, di sospensione, di realtà alterata, aspettando e pregando
che il cerino acceso bruci le dita di qualcun altro.
La tragedia del Ponte
Morandi si poteva evitare? Con il senno del poi, certamente sì.
Però con il pensiero
del prima del poi, no, in quanto tutti, pur di non prendere decisioni,
rimanendosene con in pollici in orizzontale, auspicavano che ciò che
intimamente e ufficiosamente sapevano potesse accedere da un momento all’altro,
ma che non potevano o volevano dire esplicitamente, cambiando il corso della
storia, sarebbe accaduto, poiché il destino, che lo si voglia o no, non può e soprattutto
non vuole essere cambiato, in quanto perché avvenga un minimo cambiamento in
qualcosa è risaputo che la tragedia, la morte, il trauma, lo shock, sono una
necessità, un’onda sismica di breve durata, che fa vedere i sui effetti per un
periodo relativamente breve, per poi tornare in stato apparente di chete,
mentre tutto come un magma di pollici in orizzontale continua a muoversi nel
sottosuolo, fino alla prossimo sisma, al prossimo cataclisma, dove neppure il
fato, però ci mette il naso, ma solo il destino già scritto degli eventi che
inevitabilmente dovranno avvenire.
Foto: dalla rete
Marco Bazzato
17.09.2018
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lunedì 27 novembre 2017
Olio di Cocco Nativo
Perché parlare oggi di
olio di cocco?
Solo per una semplice
moda, o perché dietro al trend del momento ci stanno secoli di storia, iniziata
nel sud-est asiatico che noi occidentali abbiamo imparato ad apprezzare da un
tempo relativamente breve?
Certo, sovente le mode
vanno e vengono, tornano, si evolvono, mutano, ma certi valori rimangono
inalterati nel tempo e uno di questi valori è proprio l’Olio di Cocco.
Lo ammetto, fino a poco
tempo fa conoscevo l’Olio di Cocco solo per sentito dire, ma poi, iniziando ad
interessarmi per diletto, mi sono messo a leggere pagine e pagine web in rete,
sugli effetti positivi per la salute umana ma non solo di questo straordinario
prodotto, prodotto di cui però bisogna essere certi della provenienza e
soprattutto che sia vero Olio di Cocco Bio.
Ed è così che mi sono
imbattuto in una nuova realtà commerciale tedesca, nata nel 2016 che oltre ad
altri prodotti Bio, ha fatto una mssion importante, la vendita al privato,
tramite Amazon,
oppure per gruppi d’acquisto italiani, associazioni animaliste, parrucchieri,
ristoratori,dentisti, aziende che
interessate all’acquisto in stock, da proporre alla loro clientela con il loro brand, rivolgendosi direttamente allo
scrivente, per ulteriori informazioni e/o per ricevere offerte dettagliate.
Perché ho parlato di
gruppi d’acquisto?
Perché il gruppo
d’acquisto offre l’opportunità di ottenere degli sconti quantità, facendo
un'unica spedizione, abbattendo così non solo il prezzo unitario, ma anche i
costi di spedizione, franco destinatario.
Certo, prima di dire ok
a tutto ciò, ho voluto informarmi sulla realtà aziendale e sulla provenienza
del prodotto importato in Europa, e stando a quanto scritto nel sito dell’importatore,
il Coco nativo, proviene dallo Sri Lanka. Alla luce di tutto ciò, per
sincerarmi ancora meglio della bontà del paese di provenienza, nei giorni
scorsi ho scritto ad una persona molto attiva nel mercato equosolidale, la
quale, è stata ben felice di apprendere che il prodotto non veniva importato da
altri Paesi del sud-est asiatico,che non rispettano né i diritti umani e
nemmeno quelli animali (scimmie).
Perché credo nella
bontà di questo prodotto?
Perché avendo parlato
per settimane via Skype con l’importatore tedesco, ho potuto apprezzarne la serietà,
la professionalità la preparazione anche e sotto l’aspetto etico e questo mi ha convinto
dell’alta qualità dell’Olio di Cocco Bio Native, unita alla certificazione
presente nell’etichetta di ogni singola confezione il “Ceres Certified”,
sito in inglese, tedesco e spagnolo, che ne garantisce la provenienza Bio.
Perché l’olio di Coco Nativo
dovrebbe essere presente nelle vostre case?
Se scrivessi pari pari
le caratteristiche riportate dal sito, potrei essere accusato d’essere di
parte, per questo preferisco dare un informazione più ampia, inserendo diversi
link neutri dalla rete italiana, in modo che possiate fare non solo un
eventuale acquisto informato, ma consapevole di cos’è Olio di Cocco in
generale e, in questo caso, Olio di
Cocco Bio Native, non indurito, non raffinato e non deodorato.
I possibili benefici
dell’Olio
di Cocco per la bellezza dei capelli;
I possibili benefici
dell’Olio
di Cocco per sbiancare i denti;
I possibili benefici
dell’Olio
di Cocco in cucina:
I possibili benefici
dell’Olio
di Cocco per viso e corpo,
I possibili benefici
dell’Olio
di Cocco contro la cellulite;
I possibili benefici
dell’Olio
di Cocco per i vostri Pet;
Come ultima cosa, non
meno importante, sia per il consumatore privato, sia per eventualmente i gruppi
d’acquisto: Il rapporto qualità/prezzo.
Facendo una lunga
navigata in rete, durata ore e ore, ho potuto appurare che il prezzo del Olio
di Cocco Nativo è il più concorrenziale, rispetto anche alla grammatura da
1000ml/920grammi, presenti attualmente sul mercato online.
Per ulteriori
informazioni, contattatemi privatamente, via messaggeria, tramite la mia pagina
Facebook.
© del testo di Marco
Bazzato
lunedì 23 ottobre 2017
Pull a pig
Pull a pig,
letteralmente tradotto dall’inglese, “Inganna il maiale”, ma visto che il “gioco”
se di tal cosa si può parlare, andrebbe tradotto, volgendolo al femminile, con “Inganna
la scrofa”.
Ormai è noto che questo
non è certo un nuovo gioco, ma una semplice rivisitazione in chiave tecnologica
delle scommesse che si facevano da ragazzi, da teenager, da adolescenti, e perché
no, anche da adulti, quando tra amici, anche vincendo una certa forma di repulso,
si scommetteva nel “farsi” non solo la più cessa della scuola, ma in quei casi,
anche la più grassa, dicesi cicciona o altri aggettivi oggi considerati “fuori
moda”, soprattutto nel mondo virtuale dei social network, soffocati dalla
dittatura espressiva dei censori occulti, che ti bloccano l’accesso se provi,
come si diceva in passato, “a farla fuori dal vaso”, detta in termini più
attuali, se non usi un linguaggio non consono, dove il sessismo, anche in
termini generali, risulta offensivo per la suscettibilità delle donne e/o
femmine, le quali dovrebbero, sebbene siano in numero superiore rispetto ai
maschi, essere trattate, in rete, come dei Panda e protette, come si adopera il
WWF con le specie diversamente umanoidi, che popolano il pianeta Terra.
Il vecchio, ma presunto
nuovo gioco, antico come il mondo, Pull
a Pig sembra facile, ma la cosa va letta non solo in chiave femminile e/o
femminista, ma dovrebbe anche andar letta dal punto di vista maschile.
In quanto, mettiamoci
nei panni anche del ragazzo, il quale, come una prova di iniziazione per essere
accettato dal gruppo, deve avere lo stomaco e il fegato di interagire in un
modo o in un altro con una persona di sesso opposto, esteticamente attraente
come un boiler e non è detto che l’impresa titanica vada sempre a buon fine, perché
il maschio è “costretto” a mettere in atto, controvoglia, una serie di artifizi
psicologici, innanzitutto verso se stesso, per vincere sia le sue resistenze
interiori e poi quelle di lei. Dove spesso queste donne, avendo una bassa stima
di se stesse, a causa dell’aspetto fisico, essendo forse più diffidenti di
quelle fighe, di quelle ghocche che se la tirano, sono anche le più difficili
da conquistare, in quanto prima di “mordere l’osso”, ci sta una quantità
mostruosa di carne, di adipe, da superare e quindi a costoro, per assurdo, dovrebbe
essere data una medaglia, non essendo affetti da una parafilia sessuale che va
sotto il nome di “Adipofilia!”
Ma può essere anche
vero l’esatto opposto, ossia, costoro, avendo una bassa autostima, cadono ai
piedi del fighetto di turno che le annebbia con quattro complimenti dolci in
croce, due sorrisetti, tre emoticon, come va tanto di moda oggi, un uscita per
un caffè o una pizza e poi, come sovente da prassi, senza manco conoscere in
profondità la persona, perse e fatte come i cachi, gliela danno, illudendosi d’aver
trovato il grande amore della loro vita.
Grulle.
Attenzione però, il problema
vero non è il Pull a Pig.
Il problema vero è soprattutto l’attuale società contemporanea che, a differenza del passato, offre infinite possibilità in infinite combinazioni per avere delle interazioni sociali, dove però, a differenza del tempo che fu, visto che ormai molto passa attraverso il filtro della rete, non avendo fin da subito un contatto diretto con la persona, si costruiscono più castelli in aria di come si faceva nel passato, cadendo facili prede di soggetti che per un motivo o per un altro, alla fine cercano , maschi e femmine, questo infoi mento generalizzato non fa distinzione di genere, trovano sesso “low cost”, perché anche il sesso stesso è un prodotto in che viene svenduto a prezzi di saldo di fine stagione, in quanto consumato non in modo diverso da come si consuma lo street food, il cibo di strada, chattando con la controparte, creandosi così un mondo di seghe mentali e amori illusori, frutto del mondo informatico, e poi queste illusioni, queste seghe mentali, come avviene da sempre, si trasferiscono in ogni caso nel mondo reale.
Il problema vero è soprattutto l’attuale società contemporanea che, a differenza del passato, offre infinite possibilità in infinite combinazioni per avere delle interazioni sociali, dove però, a differenza del tempo che fu, visto che ormai molto passa attraverso il filtro della rete, non avendo fin da subito un contatto diretto con la persona, si costruiscono più castelli in aria di come si faceva nel passato, cadendo facili prede di soggetti che per un motivo o per un altro, alla fine cercano , maschi e femmine, questo infoi mento generalizzato non fa distinzione di genere, trovano sesso “low cost”, perché anche il sesso stesso è un prodotto in che viene svenduto a prezzi di saldo di fine stagione, in quanto consumato non in modo diverso da come si consuma lo street food, il cibo di strada, chattando con la controparte, creandosi così un mondo di seghe mentali e amori illusori, frutto del mondo informatico, e poi queste illusioni, queste seghe mentali, come avviene da sempre, si trasferiscono in ogni caso nel mondo reale.
Il problema, lo si
ribadisce, non è il Pull a Pig in se, quello fa parte della naturalità del genere
umano, ma va condannato è che questi disgraziati
e mi riferisco ai maschi senza onore, invece di vantarsi come si faceva in passato
con gli amici in piazza, al bar, raccontando i loro sforzi per raggiungere l’obbiettivo,
vadano a pubblicare tutto ciò in rete o che si scambino commenti nei vari
gruppi di discussione, dove purtroppo, il delatore o la delatrice, l’infame, l’infiltrato
o l’infiltrata, come una pettegola dal parrucchiere, va a far uscire dal gruppo
ristretto le conversazioni, creando l’immagine falsata di maschi mostri
che se ne approfittano di donne,
maggiorenni, che, volendo passare per indifese, si professano vittime, a
comunque affamate e saziatesi di carne maschile, esteticamente attraente,
altrimenti si dubita che gliela avrebbero data, no?
È vero che vale sempre “l’arcaico”
detto femminista de: “L’utero è mio e lo gestisco io”, nulla da eccepire su
questo loro sacrosanto diritto di proprietà privata, donata da madre natura
alle donne bio, ma va ricordato a queste donne che la danno via con estrema
facilità, senza le necessarie accortezze, poi il rischio che si corre, in primis è
quello di essere etichettate come donne dai facili costumi, in quanto perché,
piaccia o no, la nostra società è ancora, nel bene o nel male, intessuta da un
forte maschilismo, ma se anche così non fosse, una donna che ha rispetto di se
stessa, non va a darla al primo gonzo che passa, dopo qualche chattata sullo
smarphone, arrabbiandosi poi se in un modo o in un altro, viene fottuta.
Rimarco una cosa però,
riferita al genere maschile, genere del quale immodestamente sento d’appartenere:
i maschi di oggi non hanno onore, non hanno dignità, non hanno rispetto,
lasciamo stare per quella che ti sei portata a letto, brutta e grassa come la
morte, nessuno ti ha puntato la pistola addosso e ti ha costretto a farlo. I
maschi di oggi non hanno rispetto per se stessi: ti sei fatto la scopata? Bene.
Hai aggiunto un’altra tacca incisa sull’uccello? Hai fatto bene. Ma almeno abbi
l’onore di tacere e di non fartene vanto, soprattutto lasciando tracce nei
messenger. Quindi, se devi reclamare, legittimamente, la tua vittoria: datti
appuntamento al bar, davanti ad una birra, attorniato solo da amici fidati e
racconta, se vuoi, le tue prodezze amatorie. Poi, se qualcun altro le mette in
rete, orbene, ha tradito la tua fiducia
e questo, per dimostrare che si ha senso dell’onore, andrebbe escluso
dal gruppo e bloccato nei social network, in quanto “bocca da puttana!”, come
si diceva anni fa dalle mie parti.
Poi, visto che la
scommessa con gli amici l’hai vinta, sarebbe da persone intelligenti uscirne
con signorilità, scaricandola non spiattellandole in faccia la verità, ma
raccontando le solite balle diplomatiche che si usano per scaricare una
persona. Tanto il maschio, in quei casi lì, davanti a se stesso e davanti agli
amici ha già vinto e non ha senso distruggere, umiliare e destrutturare la
sconfitta, quella è già stata punita a sufficienza da madre natura, no?
Nota dell’autore: il
rispetto va dato alle persone, sempre, soprattutto quando si è faccia a faccia,
alle loro spalle, in privato, quando queste non ci sono, ci sta ancora per ora la libertà
di dire ciò che si vuole e con il linguatggio che si vuole, indipendentemente dal
sesso biologico di appartenenza, se non si vuole beccarsi come minimo uno sputo
in faccia o una denuncia!
Foto dalla rete
Marco Bazzato
23.10.2017
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