sabato 25 ottobre 2014
Iran, giustiziata Reyhaneh. Condannata a morte per aver ucciso l'uomo che tentò di stuprarla
Appena appresa la notizia, la rete è
letteralmente è esplosa in contumelie contro l’Iran e la legge di quel Paese,
in cui vige legittimamente la pena di morte. Pena di morte che del resto esiste
in molti Paesi civilizzati, dagli Stati Uniti al Giappone.
Solo che se è l’Iran ad applicarla nel
caso di un omicidio avvenuto per eccesso di legittima difesa, a seguito di un
tentativo di tentato stupro, ecco che il mondo, ipocritamente, si indigna.
Partiamo da un presupposto: la giovane aveva
tutto il diritto/ dovere di ribellarsi contro colui che cercava di stuprarla, e
si è difesa con le unghie e con i denti, arrivando come si sa a ucciderlo.
Il problema sta
proprio qui:l’eccesso di legittima difesa, dove all’atto pratico la vita della
donna non era in pericolo – raramente i violentatori uccidono le loro vittime –
il loro imperativo è possederle, in quanto
la vittima del tentativo di stupro viene uccisa perché tenta di
ribellarsi e colui che tenta lo stupro in preda ad un raptus, la uccide. Un po’ ciò che è accaduto, si
suppone, a parti invertite. Ossia Reyhaneh
Jabbari, nella concitazione di difendersi – legittimamente – ha ucciso l’aggressore,
passando dalla ragione, in quanto vittima, a quella del torto, come carnefice. È
come carnefice è stata condannata.
I punti salienti
sono altri: erano legittime le interferenze straniere di mezzo mondo contro il
sistema giudiziario iraniano? No. No perché
la pena di morte, checché ne dicano i detrattori, ha la sua valenza e gli
italiani, che sono un popolo di forcaioli a corrente alternata, basta leggersi
cosa scrivono quando è menato o ucciso barbaramente un animale da affezione, in
determinate situazioni: torture degne della Santa Inquisizione, come quelle
inferte all’eretico di Giordano Bruno o i supplizi che avvenivano nel carcere
iracheno di Abugraib, rendendo così, in via del teorica, un popolo, degno di
andare a lavorare per qualche servizio segreto, in qualità di esperti in
torture, sempre che dalle parole siano in grado di passare ai fatti e che non
siano invece solo dei boccaloni, sono sempre pronti ad attaccare il carro, non
dove sta la ragione, ma dove sta l’emozione.
Comunque la ragazza
poteva avere salva la vita. Poteva salvarsi la vita, ma ha scelto di morire. Sì.
Checché ne dicano i media, il sistema iracheno funziona meglio di ciò che si
crede. Alla donna era stata offerta,
come viene offerto a tutti i condannati a morte per omicidio in Iran, la possibilità
di aver salva la vita, come da legittima richiesta dei parenti della vittima, se avesse avuto il coraggio di fare come
Galileo Galieli, ossia abiurare,
rinnegando ufficialmente la teoria Copernicana, a favore di quella eliocentrica
– tolemaica – entrando, tra le altre sue
scoperte, nella storia con il suo mitico “Eppur si muove!”
La giovane avrebbe
potuto “abiurare”. I famigliari della vittima erano disposti a perdonarla, imponendo
una condizione, offrendole l’ancora di salvataggio, il salvagente e la cima, se
avesse ritrattato il tentativo di stupro, ma ha rifiutato il “Do ut des”, Sarebbe stata una ritrattazione convenite, in
quanto non si sarebbe messa, con il suo rifiuto, da sola il cappio al collo, optando
per fasi dare “l’eutanasia”.
Come per uno
strano scherzo del destino, Reyhaneh Jabbari ha sbagliato mortalmente non una
ma bensì due volte. La prima quando ha ucciso colui che tentava di violentarla,
la seconda quando ha scelto di morire, vittima del proprio orgoglio. Orgoglio che
non ha avuto lo scienziato Galileo Galieli, il quale, per dirla alla
Montalbano, se ne è “catafottuto” e come recita una famosa pubblicità
televisiva, andata in onda in Italia anni fa, ha scelto il mitico motto: “Io
preferisco vivere!”
La cosa assurda
è che adesso i media di mezzo mondo faranno passare l’Iran come Stato despota e
tiranno, nemico delle donne e misogino, mentre i fatti, se analizzati nella
loro interezza complessità, sono diversi.
Se la donna fosse
stata intelligente, di morti invece di due, ce ne sarebbero stati uno solo, tanto
tutto il mondo sapeva che era stata vittima di un tentato stupro, che se non si
fosse attaccata al proprio orgoglio, sarebbe libera grazie un formalismo che le
avrebbe resa salva la vita.
Reyhaneh Jabbari
non ha saputo prendere il treno quando passava, non ha voluto come un cammello
attraversare la cruna dell’ago –il formalismo della ritrattazione – e si è
fatta dare la morte, “suicidandosi”, mettendo lei stessa la corda nelle mani
del boia.
Come dice il
proverbio: “Chi è causa del suo mal piaga se stesso”.
Marco Bazzato
25.10.2014
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