giovedì 31 ottobre 2013
Un mese di gioie e dolori
Poema pubblicato nel
corpo biligue, italiano – bulgaro, traduzione a cura di Vessela Lulova Tzalova,
“Il campo del vasaio” Mt 27.7, Ed
Slaviani, Sofia, Bulgaria
Nota:
quanto vi accingete a
leggere è stato scritto in originale nel 1994 su supporto cartaceo e ricopiato
qui nelle date scritte in fondo ad esso.
So che forma e
metrica lascia totalmente desiderare, ma ciò che è uscii del 1994 era emozione
pura d’un avvenimento reale che mi toccò più di quanto all’attimo ero disposto
a credere.
Quando decisi di ricopiarlo dai miei archivi
cartacei, sentii l’esigenza di non snaturarlo, anche se nel corso degli anni,
il modo di comporre s’è evoluto, e apportando modifiche sintattiche e metriche
perdeva di spontaneità ed emozione.
Lo consegno a voi così, originale con minime
correzioni grammaticali, sperando d’aver lasciato inalterata la freschezza
iniziale.
Non nè abbiamo a male i puristi della
lingua, l’emozione umana non sempre si deve assoggettare alla purezza
sintattica.
Marco Bazzato
Un mese di gioie e
dolori, passioni e timori.
Questa è una storia vera
a molti accennata
a pochi conosciuta
per nessuno ancora
scritta e raccontata.
E’ la storia d’un mio momento di vita
d’un mese di gioia
e tormento.
Tralasciamo dei fatti
avviciniamoci ad esso
dall’inizio del
giorno
precedente l’evento.
Un evento che mi ha dato nuova vita
un periodo che mi ha
dato
dolore fisico,
spirituale, umano,
arricchente come mai
in tutta una vita.
E’ la sera precedente ad esso
il corpo è lasciato a
digiuno,
vogliono solo liquidi
purificazione
completa.
Mi allontano dal luogo del fatto
con mille pensieri,
mille timori,
lo spirito è scosso
l’animo confuso,
il corpo vuoto,
svuotato di ciò che
conteneva
delle impurità che
celava, pulito.
Cammino nei corridoi
vedendo persone
aventi nel fisico la sofferenza
negli occhi la
tristezza del dolore,
ma in fondo ad essi
vedo speranza di
guarigione,
l’amore per la vita,
la gioia del sole,
il desiderio di
tornare in salute,
fiduciosi del luogo,
fiduciosi dell’uomo,
fiduciosi di Dio
che ha messo nelle
mani dell’uomo
la possibilità
d’aiutare, curare e guarire.
Scendo un lungo corridoio
entro oltre una gran
porta
oltre ad essa
intravedo
un altro corridoio,
in fondo un nuova
porta aperta
in lontananza una
grande Croce
immensa
da il senso di Dio,
nella chiesa ritrovo
il senso dell’uomo.
Mi avvicino all’entrata,
entro
con un gesto nervoso
mi segno
ad un banco mi
avvicino
m’inginocchio,
congiungo le mani
la mente è confusa,
distratta,
assente
presente nel passato
incerta nel futuro.
Alzo gli occhi
osservo la croce
in quel momento mi
sento capito
confortato, amato,
mi sento vicino al
Padre del Mondo,
sento vicino Suo
Figlio
i miei pensieri vanno
a Lui
che ha affrontato la
Morte per noi
l’ha sconfitta e poi
dal Padre è tornato.
Mi alzo,
l’animo è confortato,
lo spirito è rinato
le paure sono sopite,
non ho parlato
non ho pregato
ma mi sento capito
in questo momento mi
sento aiutato
protetto, amato.
Mi accingo a tornare nei miei passi
in tasca ho un regalo
d’amico,
lo tocco, lo sento,
lo accarezzo
lo prendo in mano,
con fare furtivo mi
allontano
da quel Luogo di Pace
cercando un posto
tranquillo e isolato,
isolato da tutti
isolato da tutto
per stare con me
stesso, con i miei pensieri.
Salgo una scala, in cima ad essa,
siedo al margine
dell’ultimo gradino,
tolgo dalla tasca il
regalo dell’amico,
lo apro, lo scarto
è un sigaro.
Lo prendo, lo accendo
lo aspiro con gusto
con piacere lo fumo
come fosse l’ultima
cosa che debbo fare.
Rimango un’ora solo con i miei pensieri
solo con me stesso,
con il mio passato
con il presente,
pensando quello che
potrebbe essere il futuro.
Alla fine di tutto, mi alzo
sono tranquillo,
felice e sereno
ho fatto quello che
ritenevo giusto
ho fatto quello che
ritenevo
andasse fatto in mia
responsabilità.
Getto il sigaro nel posacenere
mi annuso le mani,
puzzano in modo
pazzesco
in quel momento non
importa nulla
sono sereno con me
stesso
in pace con il mondo.
Estraggo dalla tasca un’arancia
erano anni che non
mangiavo frutta
quella sera n’avevo
voglia
la sbuccio con calma
assaporando l’asprità
della scorza,
l’acerbità del suo
gusto
lentamente la mangio,
l’assaporo
la gusto
incamminandomi verso il reparto
verso la mia corsia,
la stanza, il letto.
Incontro conoscenti
degenti di tutte le
età
li saluto, ci
guardiamo
non ci diciamo nulla.
Entro in camera
mi butto nel letto
leggo un po’, poi
lentamente mi addormento.
Mi svegliano il giorno seguente con fretta.
E’ ora
il momento è
arrivato.
Osservo l’infermiere
lo maledico non per
ciò che mi attende
ma per la levataccia.
Sbuffando mi alzo
mi reco nel bagno, mi
lavo, mi preparo.
Mi guardo allo specchio
sono sereno
ritorno in camera,
mi butto nel letto.
Mi fanno spogliare
mi tolgo tutto.
L’infermiere s‘avvicina, sorride
stringendo in mano
una siringa per l’iniezione
gli porgo il braccio,
cerca la vena, la
trova
avvicina l’ago ad
essa,
lentamente mi buca
penetra dentro la
carne
inietta il liquido
nelle mie vene,
io osservo,
tranquillo,
sereno.
L’iniezione è finita,
era un calmante o
preanestesia.
alzano il letto sulle
ruote,
lentamente mi
spostano
portandomi via,
alzo il braccio,
saluto i compagni di
stanza,
mi salutano e fanno
gli auguri,
rispondo e ringrazio
con le dita faccio la
V di vittoria
e auguro a tutti una
buona giornata.
Mi trasportano lungo i corridoi del reparto
verso l’entrata della
sala operatoria.
Non ho visto i miei
da una parte ne
soffro,
però sono contento
mia madre mi ha visto
troppe volte
entrare in certe porte.
E’ meglio così
sdraiato nel letto,
solo con i miei
pensieri,
vedo gente
indaffarata correre veloce,
faccio un po’
d’anticamera,
mi volto nel letto,
osservo i miei
vicini,
scambiando parole
d’incoraggiamento,
arrivano due
infermiere carine,
e prendono in
consegna il mio letto,
e mi fanno entrare
nella sala operatoria.
Mi chiedono con delicatezza di alzarmi
e distendermi sul
letto operatorio,
disinvoltamente lo
faccio, mi distendo,
s’avvicinano, mi
coprono, m’osservano,
chiedendomi se sono
tranquillo…
…Rispondo di si.
S’avvicinano a me
prendono il braccio
per una nuova iniezione.
Questo è l’inizio.
cercano la vena, la
trovano
infilano l’ago dentro
di essa
per la seconda volta
nell’arco di poco tempo
vengo bucato.
Il liquido dentro il grosso flebo
lentamente comincia a
scorrermi nelle vene.
Mi rivolgono alcune domande
così per distrarmi,
io finche posso
rispondo.
Lentamente perdo i sensi,
tutto si oscura
non sento le voci,
non sento i rumori
non sento più odori
la mia mente vacilla
il corpo fluttua
il pensiero si
dissolve.
Sia quello che sia
Fu l’inizio.
Non saprò mai ciò che successe
all’esterno,
all’interno del mio corpo,
So che l’avevano
aperto,
avevano in mano la
mia vita
sotto i loro occhi il
mio passato
e la possibilità di
cercare
di rimediare ad esso,
allo scherzo che
madre natura aveva fatto.
Avevano in mano il mio futuro
avevano in mano la
mia vita.
Di quei momenti ho vaga coscienza
ricordo solamente la
luce sopra agli occhi
i volti che stavano
attorno
coperte da maschere,
questo è quello che
ho visto
che penso d’avere
visto
in quei momenti che
m’aprivano gli occhi.
Un tempo lunghissimo
per chi lavorava e
attendeva è passato
per chi riposava
passato in un lampo.
Ricordo il risveglio
in modo sfocato e
distante
si chiedevano l’ora a
vicenda
erano passate le
17.30.
Mi sentii sollevato,
deposto nel letto.
Attorno a me con gran confusione
stava tornando il
dolore
sentivo il fuoco nel
corpo,
mi sentivo aperto e
violato
bucato in tutti gli
arti
ma soprattutto felice
d’essere sveglio.
Iniziarono il trasporto fuori dalla sala.
Fu li che in attesa
vidi mia madre e mio
padre
con le lacrime agli
occhi
e lo sguardo sfinito
con il fisico stanco
con le mani fremevano
di sapere
con le emozioni che
s’intrecciavano
gioia e felicità
bene, male, riuscito,
fallito…
Sensazioni vissute
troppe volte nella
vita
troppi momenti tristi
troppe speranze,
troppi sogni
ogni volta si
rinnovavano.
Gli ho visti
gli ho salutati
mi hanno
baciato…piangendo…
Uscire da quella porta è stato rinascere
e stato lasciare alle
spalle il passato
con la speranza di un
futuro migliore
è stata gioia…
L’unica cosa che so d’aver detto
in quell’attimo a mia
madre:
“Perché piangi…è passata…pensiamo alla
prossima
fra dieci anni…”
Fui ricondotto nella stanza
sempre attorniato da
molte persone,
genitori, dottori,
infermieri.
Lentamente stavo tornando in me stesso
la coscienza era
intorpidita
il corpo lo sentivo
distante,
stava tornando.
Lentamente assieme alla coscienza
stava tornando il
dolore,
il rendermi conto di
com’ero e come mi sentivo.
Avevo sete
non potevo bere,
ero tutto un’insieme
di tubi
flebo, cuciture e
drenaggi.
Dopo poco tempo vidi i professori,
dissero che quello
che si poteva fare era stato fatto,
andava fatto,
la situazione era
intollerabile,
adesso vedremo il
futuro.
Le ore della sera scorrono lente
immerso in un
dormiveglia fatto di droghe.
La gola reclama liquidi
il corpo però può
rifiutarli,
sono costretto ad
attendere.
Lentamente mi riaddormento,
ho un sonno leggero,
scosso da dolore e
disidratazione.
Quella notte mio padre è a fianco a me.
per assistermi,
osservami, essermi vicino
quante volte tutto
questo negli anni passati...
Eppure l’amore è nei suoi occhi,
l’espressione del suo
sguardo
dimostrante la
severità dell’amore paterno.
Quella notte mi sveglio varie volte,
il mio desiderio di
bere è impellente,
la bocca reclama
acqua,
la gola reclama
acqua,
il corpo sebbene
rifornito di liquidi
per via endovenosa,
chiama acqua.
Non resisto, la cerco nel buio della notte
la trovo, la osservo
con l’avidità d’un
uomo nel deserto,
con parsimonia la
prendo.
Non posso abusarne
non debbo abusarne.
Poi la notte scorre via lentamente
in crescendo di luci
e ombre,
di sonno e coscienza.
Il mattino seguente le prime visite,
i primi infermieri
di cui non posso fare
a meno
non apprezzare
l’umanità, la gentilezza
l’abnegazione per
l’altrui sofferenza,
l’umanità nel lavoro
dal cuore.
Vengono a vedermi,
ormai ci conosciamo
da anni,
mi dedicano qualche
attenzione in più
si soffermano a
guardami,
a chiedermi il mio
stato e rincuorarmi.
Ore in questo letto
di sofferenza per il
passato
di gioia e speranze
per il futuro
scorrono lentamente.
Ogni attimo è lungo, intenso,
ogni attimo può
sembrare eterno
ma sento viverlo
d’intensità.
S’avvicenda nel nuovo giorno
le consuete visite di
routine,
arriva il mio turno,
mi guardano, mi
salutano,
passano in rassegna i
miei sintomi,
chiedendomi il mio
stato attuale.
Alzano le lenzuola
per vedere il lavoro
svolto,
per pulire la ferita,
disinfettarla,
alzano le bende,
mi vedo l’addome
già solcato da mille
battaglie,
con una nuova ferita,
una nuova prova della
mia esistenza,
un nuovo segno che
porterò con me
nel corpo e nello
spirito.
Osservo la ferità con curiosità,
con intensità e
distacco,
vedo un grosso taglio
chiuso con punti di
sutura neri,
ripenso al lungo
giorno di ieri appena trascorso,
rivedo il corpo
violato,
aperto, il ventre
scoperto,
l’intimo aiutato,
in quel momento tutto
sembra così irreale,
assurdo, strano
miseramente umano.
Il lavoro è finito,
ripulito, viene posta
nuova bendatura.
Osservo stupito
tre cannule uscenti
escono dall’addome
dal basso ventre
quei tubi son dentro
il corpo,
dentro la parte lesa,
portando all’esterno
ciò che non può
scorrere
liberamente
all’interno di esso.
Alla fine della visita
giunge mia madre,
con negli occhi
lo sguardo d’un
giorno terribile.
d’una notte insonne
che ha già conosciuto.
Lì con me, mi rincuora,
mi sistema, mi
guarda,
soffre per me,
in quel momento
soffro per lei.
Sentiamo però che è sofferenza
che può dare speranza
alla vita.
E il dolore in gioia si trasforma.
Se ne va,
rimango solo con me
stesso,
nell’attesa di ciò
che sarà,
di ciò che deve
essere.
Passa una giornata,
arrivano le visite
tanti parenti, tante
persone che sanno di me
vogliono vedermi,
vogliono salutarmi.
vogliono essermi
vicino.
Sono contento di tanta apprensione
di tanto affetto.
Anche quel giorno,
non ho potuto
mangiare
certamente secondo
loro non potevo bere,
ma sfortunatamente
per loro,
non potevo farne a
meno.
Il mio fisico ha sempre reclamato acqua,
per necessità, per
smaltire la tensione nervosa,
e con mia grande
incoscienza,
ho ingerito la
quantità che ritenevo giusta
per il mio stato.
I primi cinque giorni
scorrono lenti
consoni alla routine
ospedaliera,
con la vita
frazionata
in tanti piccoli
momenti, e scadenze..
All’inizio del quinto giorno il medico
toglie il flebo che
ha rifornito il mio corpo
di nutrimenti e sali
minerali.
L’intervento d’estrazione
è durato un lampo
interminabile.
Toglie dal braccio destro
il cerotto che tiene
l’ago.
Con mia sorpresa e stupore
l’ago non c’è.
con delicatezza
prende fra le sue dita
la cannula infilata
nel braccio,
…inizia a tirarla a
se.
Lunghi attimi,
momenti che non hanno
fine.
La cannula continua ad uscire
sembra non abbia mai
fine.
Giunge un getto di sangue,
e il braccio torna in
libertà,
libero.
Da quel giorno posso mangiare.
Arriva l’ora di pranzo
l’infermiera propone
un menù pazzesco:
minestra (mai
mangiata in vita mia)
e patate bollite (che
odio).
M’informo delle alternative,
in effetti, il menù
di quel giorno
comprendeva cibi
adatti al mio palato.
Ordinai con sorpresa e dubbio
un piatto abbondante
di pasta al ragù,
una porzione di pollo
allo spiedo
e patatine fritte.
La donna mi guarda con stupore
misto ad incredulità,
voleva rifiutarmeli,
erano sei giorni che
non ingerivo cibo
temeva che potessi
rigettare tutto.
Titubante mi porse il vassoio
con il cibo
richiesto.
Fu un tipico pasto ospedaliero,
dove i sapori non
esistevano,
i gusti s’erano persi
nei fornelli,
ma per me fu il più
bello della mia vita.
Un inizio.
Iniziai controvoglia,
nonostante tutto era
difficile
accettare
l’introduzione del cibo.
Mi sforzai, per me,
per quello che avevo
fatto,
per ciò che stavo
facendo.
Alla fine il mio corpo
iniziò ad accettarlo,
a volerlo con avidità
con ingordigia, con
piacere.
Mi sentii sazio.
Dopo quel prima pranzo lucilliano
m’assopii, tranquillo
e sereno.
Sentivo che il tutto stava procedendo
nel migliore dei
modi.
Ma non bisogna pensare che il tutto
fosse rose e fiori.
c’erano momenti di
debolezza e sconforto.
Mi rifugiavo in me stesso,
m’estraniavo dal
mondo che in quel momento
rappresentava solo
dolore e sofferenza,
infilando le cuffie
nelle orecchie
e ascoltavo la mia
musica.
In quei momenti c’era rabbia
frustrazione,
immobilismo, immobilità,
la musica cancellava
ciò che era attorno a me,
il ritmo martellante,
le voci urlanti,
e chitarre spacca
timpani,
sembravano urla
infernali,
dove il rumore
annientava la solitudine,
il ritmo scandiva una
realtà inesistente,
il frastuono
conduceva l’essere all’ossessione,
tutto questo mi
liberava, mi accudiva,
lenendo la solitudine,
mi aiutava a superare
lo sconforto,
con essa mi
addormentavo.
I giorni passano,
si avvicinano le
festività di natale,
i fatti del mondo
continuano a raggiungermi
anche in quel letto
d’ospedale.
In quei giorni scoppiava la bomba
nel rapido 904 di
Firenze,
il dolore delle
famiglie che avevano
perso il loro cari in
quell’attentato
erano per me immensi
rispetto al dolore
che posso aver provato io.
Iniziavano in Tv le serie
Supercar ed E-Team
distraendomi con
qualcosa di leggero.
Arriva il Natale,
se questa festa è
ritenuta
la nascita che si
rinnova,
per me fu un doppio
Natale.
Il primo riferito alla mia Fede
il secondo è
rinascita di me stesso.
Le visite dei care si sono susseguite
giorno per giorno,
ora per ora,
so d’aver pianto
lacrime
di tristezza e gioia,
uno stato di strana
euforia
e stanchezza
albergava in me.
Solitudine, felicità
abbandono al destino,
attaccamento alla
vita,
impotenza per i fatti
della vita,
tutto ciò passò per
la mente
in quel dì di gioie e
amarezze.
Non so nemmeno e non ricordo
che regali ricevetti,
ma il più grande dono
fu tutto ciò.
Solo chi ha passato certe esperienze
può capire cos’ho
provato
in quei momenti.
Passano gli ultimi cinque giorni del 1984
tra visite,
controlli, pulizia della ferita,
familiari e amici.
Giunge il 31 dicembre.
In quel dì nell’ospedale
aleggiava un aria di
festa,
nonostante
l’ambiente,
certe cose si
sentono.
Quella mattina arriva il dottore,
puntuale per il suo
solito
giro di controllo.
Quando da me arriva,
mi comunica che
toglierò
le ancore dal letto.
Un senso di felicità mi pervade
una felicità da tempo
celata esplode.
Tutto il passato è lasciato
un nuovo senso di
benessere, mi conquista.
Lentamente il dottore toglie i bendaggi,
toglie con pazienza e
solerzia i punti
tenenti unita la
ferita,
la controlla come un
opera d’arte.
Con fare esperto,
inizia a sfilare i
due cateteri ureterali
nell’addome,
li sfila uno alla
volta,
lentamente.
Il momento è delicato e solenne
ad uno ad uno li
sfila dal corpo,
due tubi lubrificati
lunghi,
entravano nel basso
addome,
partendo dagli
ureteri due tubi dannati,
possono dare una vita
normale,
o una travagliata
esistenza.
Alla fine li prende
in una bacinella
d’acciaio
li getta..
Guardo questi due esseri rossi,
questi due semplici
tubi
ormai giacciono
morti,
il loro utilizzo è
finito,
non servono più…
hanno contribuito a
dare speranza,
un senso nuovo alla
mia vita.
Il medico passa poi a togliere
gli ultimi due
cateteri,
quello duodenale e
quello vescicale.
Tutto è finito
i quattro tubicini
giacciono inerti,
li guardo
ringraziando anche loro.
Il medico termina il suo lavoro,
sistema le garze
sulla ferita,
e con fare non
curante: ” Ora tocca a te!!”
Fatto questo se ne va.
Una persona va,
un'altra arriva.
Arriva mio padre, sa già tutto.
Tutto è pronto per il grande momento,
ci guardiamo, è ora,
non perdiamo più
tempo.
Inizio a vestirmi
indosso pigiama e
vestaglia,
alzo le coperte,
con fatica ai bordi
del letto mi siedo.
Osservo il pavimento,
il mondo attorno a me
inizia a girare,
un senso d’abbandono
mi pervade
un senso di paura mi
conquista.
Mio padre m’infila le ciabatte ai piedi,
le guardo, sembrano
nuove,
sembrano irreali.
Appoggio la mano ai bordi del letto
lentamente un piede a
terra, poi l’altro
papà al mio fianco mi
sorregge.
Faccio pressione sul corpo
i piedi toccano il
pavimento,
le gambe si
afflosciano
i tendini dopo 17
giorni scricchiolano.
I muscoli urlano,
le ginocchia cedono,
mio padre mi
sorregge, io mi sorreggo
attorno il mondo
fuoriosamente gira.
Non voglio cedere,
mi siedo e riposo,
dopo un po’ riprovo.
Questa volta mi sento meglio
mi sento già più
forte,
il fisico inizia a
rispondermi,
le gambe iniziano a
sorreggermi,
il mondo attorno
rallenta,
il turbinio inizia a
scemare.
Sono a terra, sono trattenuto, mi trattengo.
Il corpo tiene
le gambe tengono,
osservo i miei piedi
sono in posizione
assurda
completamente aperti
sembro Charlot.
Provo a raddrizzali,
ma un dolore
lancinante
parte dal femore
diramandosi ad
entrambe le gambe.
17 giorni d’immobilità forzata
non sono uno scherzo
per nessuno.
I muscoli rifiutano di muoversi,
le articolazioni non
vogliono spostarsi.
Lentamente con pazienza le obbligo,
il primo passo, il
mondo riprende a giare,
non desisto,
il secondo, il mondo
rallenta,
mio padre continua a
sorreggermi,
io continuo a
sorreggermi.
Inizio a sudare, sono stanco
non demordo
porto piano un piede
dietro all’altro,
come bambino muovente
i primi passi.
Aiutato muovo i primi passi
attraverso i piedi
del letto,
m’incammino con fare
incerto
verso il centro della
stanza,
verso il tavolo posto
sotto la finestra.
Sono passi verso il futuro
che abbandonano il
passato,
verso una nuova
felicità
che forse potrò
raggiungere.
Sono vicino alla finestra,
porto gli occhi al
vetro,
osservo il panorama
lo conosco a memoria.
Ma quel giorno ha un contorno diverso,
la città sembra un
prato immenso.
I suoi spazi aperti,
i camini fumanti
le auto che passano,
tutto sembra nuovo,
irreale, bello…
Osservo per un ultimo istante il paesaggio,
mi volto, rivedo la
solita camera,
il solito letto,
tutto in dimensione,
ora ha dimensione
passata,
la dimensione
d’attesa
trasformata in
certezza.
Inizio a tornare verso il letto,
mio padre continua a
sorreggermi.
Lentamente passo dopo passo lo raggiungo,
ci giro attorno, mi
siedo.
Gli occhi si riempiono di lacrime,
il cuore pieno con
gioia
il corpo esausto,
colmo di vita.
Mio padre mi saluta, se ne va
deve tornare al
lavoro.
Lo saluto,
da quel attimo non
avrò più tempo
per sentirmi solo.
Da quell’attimo
oltre quel letto
esiste un nuovo mondo,
desidero
raggiungerlo.
Mio padre si allontana,
io con fatica mi
rialzo.
Cerco un appoggio,
inizio a trascinarmi
verso la porta
esco, con passo mal
fermo lungo il corridoio.
Ogni due metri mi fermo,
riposo, riparto.
Mi avvicino lentamente al bagno,
entro, cerco uno
specchio,
lo trovo, mi guardo.
Non mi riconosco,
sono cambiato,
dimagrito,
curvo, stanco,
sudato,
il mondo ha ripreso a
girare, sono felice.
Felice d’essere dimagrito
curvo, stanco,
felice d’essere
diverso, ma me stesso.
Lentamente esco,
mi incammino lungo il
corridoio.
sempre a piccoli
passi
con mie pause di
riposo.
Assaporo ogni mio passo,
ogni mia pausa.
Di quei momenti ricordo il distacco dalla
stanza,
il distacco dal
letto,
porto sempre con me
il piacere di quella stanza,
di quel letto, la
gioia di quei momenti.
Dopo quei passi, nella stanza ci tornai per
dormire,
mangiare e farmi
medicare.
Avevo bisogno d’essere distante.
Gli ultimi tre giorni passati in velocità
il corpo rispondeva
sempre meglio,
la mente sempre più
felice,
lo spirito al settimo
cielo.
Passato, presente, futuro fusi.
Momenti che non auguro a nessuno,
in cuor mio contento
di aver vissuto,
svuotanti,
arricchenti, vivi,
essenziali per
sentirsi unici nello spirito
che ad ogni dolore
c’è possibilità di
riscatto
e nuova vita.
Marco Bazzato
Scritto in originale
febbraio 1994
Trascrizione da
archivio 10.03.2003
15.04.2001
21.04.2004
Marco Bazzato
© Copyright
riservato, tutti i diritti dell’autore.
Etichette:
Letteratura,
Poesia
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento
.Visto il barbarismo espressivo di qualche utente anonimo, i commenti potranno essere moderati e/o rimosssi a insindacabile giudizio..
Il titolare del blog declina qualsiasi responsabilità civile, penale per i contenuti dei commenti dei lettori, in quanto unici titolari, che se ne assumono la completa paternità e con l’invio del post, dichiarano implicitamente compreso quanto sopra