domenica 23 novembre 2008

Medico stacca la spina a neonato


Medico stacca la spina a neonato. Finalmente.

Accade a Treviso dove un medico, durante un congresso a Padova, ha candidamente ammesso d’aver staccato la spina ad un neonato di cinque giorni, dopo un’operazione infausta, che comunque non gli avrebbe lasciato scampo e avrebbe – forse – potuto sopravvivere alcune ore, e dopo averne parlato coi genitori, assieme hanno deciso la sospensione – umana – di ogni accanimento terapeutico.

Ora la magistratura indaga per appurare se non si sia trattato di omicidio, sebbene il confine tra diritto alla morte e accanimento terapeutico sia molto labile. Il medico trevigiano ha saggiamente deciso di lasciare che la natura – neutrale e cinicamente equilibrata e senza pietà – facesse il suo corso, portandosi con se la vita del piccolo.

D’altronde c’è poco da scandalizzarsi, da avere disgusto e rabbia, provando sentimenti di repulsa nei confronti della classe medica, che apparendo cinici agli occhi dei profani, rapidamente mettono una croce sul capo di persone ancora vive, con la stessa facilità con cui ci si degusta un caffè ben zuccherato.

Non accade di rado che un dottore, senza troppi peli sulla lingua, dica chiaramente ai familiari del malato, o al malato stesso, anche con un sorriso sprezzante sulle labbra e allargando le braccia: “Andatevene a casa a morire, qui non c’è più nulla da fare. Ora sono affaracci vostri!” Cinismo, barbarismo, disprezzo per la vita altrui, o semplice constatazione di una realtà inoppugnabile? Ad ognuno la propria risposta, secondo coscienza, ma alla fine, come cantava Franco Califano “Tutto il resto è noia”.

Lo scrivente stesso anni fa, si è sentito rivolgere pressappoco parole simili da un primario “Hai voluto farti operare? Ora arrangiati! La medicina con te ha fatto quello che poteva fare…ora sono problemi tuoi!” Il fatto che lo si possa oggi raccontare, ai fini statistici è irrilevante.

In questi giorni di sterili polemiche – da parte dei fautori della vita a tutti i costi – a proposito del caso Englaro, va ricordato che un medico in tempo di guerra, commuta sentenze di morte con la velocità di un tribunale del popolo di staliniano; pochi attimi, uno sfuggente sguardo alle ferite del moribondo e la condanna alla vita o l’assoluzione alla morte giunge inappellabile, diritta al petto squarciante come un colpo di fucile sparato a distanza ravvicinata in faccia che spappola il cervello, cospargendo grumi di materia celebrale sul cuscino dell’ex vivo che istantaneamente si cadaverizza.

Alcuni la chiamano cultura della morte, mentre ancora una volta non è altro che rapida “Selezione darwiniana”, il più forte vive, il più debole crepa, senza tanti favoritismi e senza sconti o abbuoni per simpatie personali.

Le corsie degli ospedali – che dia fastidio o no – da quando esistono sono costellate di cadaveri. Ci si potrebbe tranquillamente camminarci sopra, schizzandosi i piedi sangue e inzaccherandosi le scarpe di materia organica in via di decomposizione. Le corsie d’ospedale, per pietà umana, o per non ferire le “sensibilità” di chi preferisce non sapere e non conoscere, sono il ricettacolo del dolore, il circolo Barum della disperazione, della morte e della vita, appestante – come al tempo della spagnola – di esseri umani che vagano alla ricerca di un utopica salvezza, sebbene dalla natura stessa siano stati condannati. Stupirsi, indignarsi, fingere rabbia perché un medico ha lasciato che la vita facesse il suo corso naturale, non è altro che l’ennesima dimostrazione di viltà da parte dei ben pensanti, che aggrappandosi come sanguisughe all’etica, preferiscono – per non sporcarsi la coscienza con dolorose decisioni – condannare a priori col senno del poi, ma soprattutto dall’esterno, senza prendersi la responsabilità di vivere la morte dall’interno, senza avere la forza del coraggio d’ammettere la sconfitta del medicina nei confronti della naturale morte d’ognuno.

Solo codardi o i poveri di spirito fingono di non sapere che medici e paramedici e suore giocano e scommettono sul futuro morto del giorno seguente, fanno battute salaci sui cateterismi che odorano di sangue raffermo, sull’odore decomposizione che i corpi prima del trapasso emanano, come un avvisaglia del futuro che inevitabilmente arriverà senza complimenti e speranza.

C’è poco da indignarsi. La morte puzza per tutti in modo nauseabondo, ma arriva, senza guardare in faccia a nessuno, e gli operatori medici e paramedici hanno il diritto di crearsi una scorza, una barriera emotiva innanzi al dolore che quotidianamente vedono, anche a costo di trincerarsi dietro un cinismo che non lascia spazio alla speranza, perché proprio spesso la speranza è un lusso che arriva in ospedale già defunto, e che nessuno vuole aprire gli occhi, rendendosene conto.

Marco Bazzato
23.11.2008
http://marco-bazzato.blogspot.com/

1 commento:

  1. ho letto alcuni post di questo blog e, lasciatelo dire, sei proprio un coglione a 360 gradi.

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