sabato 22 novembre 2008

La fiaba nera di Leni Danarova

«Nonna, mi racconti una storia?» chiese il nipote, con le coperte rimboccate quasi fino alla bocca, bisbigliando le parole per la stanchezza.
La nonna sorrise, ed iniziò.

….C’era una volta in un Paese lontano, una donna brutta e grassa, con gli spessi occhiali, dalla montatura marrone. La donna, amante del denaro, era una professoressa, senza arte e né parte di una lingua, considerata per anni, esotica nel suo Paese.

La donna si chiamava Leni Danarova. Il suo era il cognome di una potente famiglia, i cui nonni prima, e il padre di lei poi, avevano combattuto per la liberazione del suo Paese dai nemici, sia interni che esterni. Il padre di Leni era stato decorato al valore militare per il suo coraggio come partigiano quando nel Paese era arrivato il comunismo.

Il papà che amava moltissimo la bambina, però sin era reso subito conto che non aveva grandi possibilità intellettive. Era capricciosa,dispettosa, egocentrica, ma soprattutto odiava studiare. Imparava sempre lo stretto necessario per riuscire a fatica, a fine anno, ad essere promossa. Ma il genitore non demordeva. Sapeva che una volta che lui fosse decaduto nella materia inerte e decomponibile, la fine di ogni persona socialista, la figlia si sarebbe trovata smarrita in un mondo pieno di lupi ed avvoltoi affamati, pronti a divorarla ad ogni minimo errore.

Fu così che decise, per amore della ragazzina, una volta cresciuta, d’aiutarla in tutti i modi legali possibili. Sapeva che lui, in quanto ex partigiano aveva diritto, assieme ai suoi familiari, ad un trattamento di favore. E così scelse per la figlia le scuole più facili, in quanto col cuore colmo di sofferenza, conosceva ogni suo piccolo e grande limite insormontabile.

Una volta fattasi donna, Leni, entrò all’Università, non dalla porta principale, quello per lei sarebbe stato un scoglio troppo grande da superare, sarebbe stata una cima impossibile da raggiungere con le sue sole forze, ma entrò per una porticina secondaria, stretta, una porticina legale che permetteva a lei, figlia del grande partigiano, d’accedere con tutti gli onori – immeritati – all’istruzione Universitaria.

Trascorsero gli anni, e la giovane donna, maturava – come tutti – nell’aspetto esteriore, rimanendo però chiusa nel suo mondo fatto di invidie, meschinità e mediocrità strisciante che cercava di colmare con l’arroganza, la sopraffazione delle persone che vedeva intellettualmente e più capaci di lei, ma che non poteva sopportane la presenza, in quanto non si sentiva altro che un pulcino nero che zampetta sull’aia sporca della conoscenza, mentre i compagni e compagne erano cigni di sapienza. Alti, slanciati, con la mente acuta ed i riflessi verso il mondo che cambiava, pronti ed aperti.

«Ma nonna…» interruppe il nipotino «Nessuno diceva a questa qui che era stupidina?»

La nonna sospirò e continuò.

…No, nessuno aveva il coraggio di dirglielo in faccia. E più gli atri compagni di università tacevano per paura, più il potere di Leni cresceva. Avevano paura di lei. Aveva una lingua tagliente come un rasoio, e i suoi scatti iracondi erano diventati una leggenda nera che aleggiava tra le aule universitarie, dove proseguiva gli studi, non con la forza del proprio intelletto, ma con le spinte provenienti dal cognome e dalla storia paterna.

E fu così che si laureò, si specializzò in una lingua, che a quel tempo, quando il mondo era diviso in blocchi, era di sola competenza dei membri e dei figli dei membri del partito. Non si poteva conoscere una lingua occidentale, perché l’occidente in quegli anni era il male, era il terrore, era schiavitù dei bambini che lavoravano fin da piccini in fabbrica e non potevano nè studiare nè tantomeno lavorare, perché dovevano produrre e far fare soldi ai signori del capitalismo senza cuore.

Ma Leni aveva un anima socialista, un anima aperta solo a se stessa e alla propria fame di potere. Sapeva marciare a passo spedito, salutava la bandiera con la mano sul cuore, felice del sogno socialista in cui anche lei ne faceva, nel suo piccolo, parte.

Dopo la laurea si specializzò ancor di più, fino a diventare lei stessa insegnate teorica di una lingua che non comprendeva. Cosciente dei suoi limiti intellettuali, imparava come un robot capitalista, tutte le lezioni che doveva fare agli studenti a memoria. Paraola per parola, non dando mai spazio alle domande, non dando mai spazio agli studenti, affinché esprimessero i loro dubbi e le loro paure, perché erano anche le sue. Ma non lo doveva assolutamente dare a vedere a nessuno. Era il suo segreto più oscuro e tenebroso.

Poi, nel suo Paese il mondo cambiò, aprendosi a quell’occidente schiavista e demoniaco, aprendosi a quell’impero del Capitale che per anni le avevano insegnato ad odiare con tutta se stesse. Ma lei non aveva bisogno d’imparare ad odiare. Quel seme malefico e maligno si era istillato in lei sin dalla più tenera infanzia, germogliando piano piano,covando, complice la sua cronica incapacità universalmente acclarata, ma mai detta apertamente in faccia, come un cancro incurabile, un virus antico e primordiale, che avevano reso nel corso degli anni, anche le sue fattezze somatiche simili a quelle della donna di Neanderthal. Il suo istinto di sopravvivenza era pari a quello di un alligatore che non vede l’ora d’azzannare le ignare prede che si addentrano nel fiume paludoso della sua conoscenza, simile ad un cobra che attende, in agguato, per ore la preda, pronta a morderla, iniettandole il suo veleno mortale.

Lei era così. Non aveva amici, non aveva amiche. Voleva per se il palco, la platea, il loggione, voleva essere contemporaneamente primadonna e pubblico di se stessa, si sentiva Uno e Trino, ma soprattutto voleva ai suoi piedi adepti asserviti al suo volere, adoranti.
Nel corso degli anni, si era c
reato un seguito di discepoli neri, un seguito di apostoli in gonnella e non, che obbedivano ciecamente ad ogni suo volere,a d ogni suo comando, ad ogni suo più piccolo capriccio, divenendo anno per anno una cultrice – socialista – del proprio culto e mito, considerandosi la Dea Kali, che come una piovra dotata di innumerevoli tentacoli, atti a tenere in un cappio sempre più stretto e soffocante i suoi adepti, non lasciava a nessuno il diritto di un pensiero proprio.

Neli, a forza del suo passato, riuscì, dando gomitate allo sterno ed in altri posti delicati, sotto la cintola a farsi strada nella vita. La sua primitività esistenziale faceva si che non conoscesse il senso del rimorso, il senso cristiano della parola errore, il senso u mano della parola rispetto nei confronti dell’altro. Per lei, l’altro era solo un nemico, un muro da abbattere, una barriera intellettuale da demolire, seppure non ne fosse all’altezza. Per Leni, le persone erano oggetti da manipolare, oggetti da infrangere a terra e calpestare,se non si piegavano al suo volere, se non si sottomettevano anima e corpo alla sua volontà e al suo delirio di onnipotenza.

Per lei, il mondo era lei, ed il mondo era in lei, tutto il resto erano solo realtà, a suo avviso non senzienti, da assoggettare, da rendere inermi, da rendere arrendevoli e miti al suo volere intriso di una megalomania senza fondo, di una megalomania senza coscienza e senza etica.

Lei era l’etica, l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine di tutte le cose visibili ed invisibili. Lei era il centro del sistema tolemaico universale, la Terra ove il cielo e le stelle si inchinano al suo volere. Si sentiva un dio onnisciente, onnipotente, un dio antico testamentario vendicativo e distruttivo. Si sentiva l’angelo vendicatore di Sodoma e Gomorra, si sentiva quel dio che comandò d Abrano di sacrficare, per la sua sete di sangue,l’unico figlio, Isacco. Lei si sentiva come l’artefice delle Sette piaghe d’Egitto, la signora del Nilo che distribuiva il limo benefico sulle coste del fiume africano.

Eppure si beava della sua bontà sanguinaria e salvifica. Si beava nel torturare psicologicamente gli studenti, che vedeva a lei superiori, schiacciandoli iniquamente, rendendoli zerbini frustrati ove poter pulirsi i tacchi. Quando adescava una preda, non la lasciva, la sfiniva, fino a che questa no capitolava esausta ai suoi piedi. Amava quel senso di potere che il ruolo, il cognome ed i trascorsi paterni le avevano permesso di raggiungere. Amava quel deliro onnisciente in cui spesso cadeva preda, ma a differenza dell’indemoniato sanato dal Cristo, lei era sempre monda, non c’era esorcismo possibile nei confronti della sua persona, del suo spirito abortito durante e prima del socialismo reale. Lì i suoi fantasmi erano nati e cresciuti, lì i suoi demoni avevano trovato un grembo ove accucciarsi e metter radici, come una piaga pruriginosa e pestilenziale. Ma lei non voleva scacciarli. Amava la loro presenza. Amava quelle bave infette che le uscivano dalle labbra, macchiandole i fogli sgualciti da decenni di rilettura sempre uguale. Sempre identica ad un disco incantato e rigato, ad un settantotto giri degli anni sessanta, impossibile da reperire anche al mercato delle pulci.

Il nipote sotto le coperte tremava. Vedeva la nonna trasformarsi e cambiare. Ai suoi occhi di bambino il volto dell’anziana signora tramutava lentamente le sue fattezze in qualcosa di indefinito ed indefinibile. Aveva paura. Aveva paura di quegli occhi neri come la morte, vedeva le sue pupille rimpicciolirsi ed arrossarsi. Sembrava che dietro quel volto apparentemente bonario si celasse un dio nero e sconosciuto. Un dio che emanava lampi di collera. L’aria nella camera si era trasformata e rarefatta, divenendo irrespirabile. La temperatura sembrava salita, lentamente, ma grado dopo grado, al piccolo il respiro risultava sempre più affannoso. Da alcuni minuti aveva iniziato a sudare copiosamente. Aveva la fronte imperlata di sudore. Tremava.

Era un tremito antico ed arcaico. Vedeva il fiato della nonna, nonostante il calore, uscire come fosse avvolto da una nube d’azoto, emanando un odore pestilenziale. Un odore che sapeva di antica tomba scoperchiata, di resta erose dal tempo, scarnificate dal sole ed erose dal vento. Era l’odore nauseabondo e dolciastro di un corpo gonfio di gas, già da settimane divorato da vermi e rapaci.
Il bambino vedeva il sorriso di Leni. Non era più il sorriso della nonna, ma del lupo, del licantropo, del vampiro pronto ad affondarle i canini nella gigulare, succhiandoli il sangue come una sanguisuga, pronta ad esplodere come una vescica infetta e prurolenta, rigonfia.

Il sorriso era cambiato, si era allargato a dismisura, come quello del lupo pronto a divorare, come la bocca dell’alligatore pronta a sbranare e divorare le carni. La bava le usciva dalle labbra, cadendo sul lenzuolo, bagnandolo e creando una macchia simile a quella di un bambino colpito da enuresi notturna.

Le fauci erano spalancate al massimo, pronte a fagocitare il piccolo, che gli apparivano come una caverna dimenticata dall’uomo da millenni. Il piccolo tremava come una foglia, lasciata in balia di venti ed eventi. Aveva paura. Era una paura antica, primordiale, irrazionale, ma terribilmente vera. L’anziana signora cambiava sotto i suoi occhi a velocità vertiginosa, sfocandosi come una foto sbiadita, come una foto scattata con una macchina fotografica impolverata dallo scorrere del tempo.

Il piccolo iniziò a gridare con quanto fiato aveva in gola, ma improvvisamente i suoni striduli uscirono muti ed afoni. Sembrava un animale braccato,come una gazzella immobilizzata dal terrore nella savana,in attesa delle fauci mortali del leone che gli strappassero la carne.

E così avvenne. L’essere mutato innanzi ai suoi occhi, gli si avventò sul volto, affondando i canini cresciuti a dismisura nelle carni. Il sangue zampillò improvvisamente copioso, mentre con le mani cercava d’allontanare quel mostro che la stava divorando. Senza riuscirci.

La donna-licantropo grugniva come un maiale affamato di piacere, godendo della sofferenza che stava infliggendo, mentre il piccolo, sotto di lei, cercava d’allontanarla con forza, senza riuscirci.

L’esile figura del piccolo andò in arresto cardiaco, emettendo bava bianca dalla bocca, afflosciandosi improvvisamente come una bambola di pezza, gettata in un angolo, disarticolata.

Solo a quel punto il licantropo abbandonò la presa, rendendosi conto di quanto aveva compiuto, lasciandoli posto alla donna, che con sguardo impaurito innanzi al corpo, apparentemente privo di vita, continuava ad eruttare sangue dalle vene squarciate dal morso vampiresco.

La donna iniziò a battere furiosamente con il pugno destro sul piccolo cuore arrestatosi, cercando di far tornare in lui la vita che stava fuggendo via. Il massaggio cardiaco durò alcuni interminabili minuti, finchè il piccolo riprese per alcuni minuti conoscenza, guardando con occhi vitrei la nonna sopra di lui che continuava a colpirlo.

La donna non udì le parole biascicate a fatica dal nipote, stava infatti cercando di tamponare la ferita al collo con un suo fazzoletto sporco di muco ed espettorato, senza riuscivi, ma impregnandosi completamente del sangue che rapidamente si coagulava.

L’anziana disperata iniziò a gridare il nome del piccolo, ma questi ormai indebolito per le ferite subite non poteva udirla.

Alla fine il cuore del piccolo cedette. Il dolore, il trauma, il sangue uscito era troppo anche per il suo giovane corpo, e quando la nonna si rese conto che quello era un corpo senza vita, fu presa – come gli accadeva con i migliori studenti che la sovrastavano per conoscenza ed intelletto – nuovamente dalla rabbia e dall’odio primitivo che la divorava e sollevò il cadavere,che già si stava irrigidendo per il rigor mortis, scagliandolo con quanta forza aveva in corpo sul pavimento. Scese dal letto ed iniziò a colpirlo, prima al volto e sul capo, fracassandogli la testa, poi, non paga dello scempio che stava commettendo, prese a colpirlo sul torace, sugli arti inferiori e superiori, saltandoli sopra con tutto il suo peso.

La stanza da letto era ormai un mattatoio bagnato di sangue e materia celebrale, era una camera degli errori e degli orrori senza fine che la donna si teneva in se sin dal giorno della venuta al mondo, e che come un grido proveniente dagli antefatti più oscuri del suo essere, come un drago iracondo, uscito dal vaso di Pandora, si era scagliata contro il mondo da lei conosciuto e creato nella mente da sempre disturbata.

Il piccolo continuava a rimanere col volto nascosto sotto le coperte. Svegliandosi improvvisamente sotto di esse spaventato e sudato. La nonna, accanto a lui, continuava a narrare imperterrita, come se entrambi fossero caduti in uno stato di coscienza alterata, ritrovandosi in un mondo diverso, in un viaggio verso l’orrore senza fine, dove al termine del tutto c’era solo sangue e distruzione, solo sangue, morte ed un cadavere distrutto dalla furia degli eventi celati in una mente malata.

Il nipote trasse un profondo sospiro, sollevando improvvisamente le coperte, ed uscendo con la piccola testa di capelli ricchi dall’oscurità. La nonna era, con lui, tenera e dolce, era li con lui affettuosa come sempre, sebbene per alcuni lunghissimi istanti avesse visto in lei qualcosa di oscuro, fuori dal tempo, eppure in lei che la soggiogava e rendendola schiava passiva e gaudente dei propri fantasmi.

Il piccolo fece un sorriso stanco rivolto alla nonna. Lei gli rispose con tenerezza, cercando di scacciare i pensieri e le visioni che da entrambi, simultaneamente, erano stati vissuti e convissuti.

«Non ti preoccupare, Nicolas, era solo una fiaba nera per far crescere forti e senza paura i bambini. Il mondo reale, anche se ti sembra diverso, è uguale. Solo quelli senza paura vincono, mentre gli altri debbono soccombere atrocemente, senza pietà. Spero che tu abbia imparato la lezione» disse tutta d’un fiato.

«Si, nonna Leni» biascicò confuso il piccolo. »Ho capito la lezione della fiaba».

«Bravo, ora dormi. Anche la nonna deve andare a dormire. Domani ho lezioni e non posso tardare. Sai, ho degli studenti presuntuosi, che hanno la pretesa di sapere più di me, e questo non posso permetterlo. Dovrò essere giustamente feroce, senza pietà perché il mondo della conoscenza non deve appartenere ai migliori, ma solamente alle persone – che come me – hanno potere e lo sanno usare con tutti i mezzi, senza provare pietà e sentimenti per nessuno».

Il bambino non capì quello che la nonna voleva dirgli, e preferì non dire nulla.
La nonna, alzandosi dal letto, gli accarezzò i capelli ed uscì dalla camera, spegnendo la luce.

Il piccolo rimase solo ed impaurito. Si mise una mano sul collo e la sentì stranamente bagnata di sangue e saliva e rabbrividì. E dentro di se capì che la nonna era veramente un licantropo, un vampiro, un demone nascosto in corpo di donna, e ne ebbe paura. Chiuse gli occhi cercando d’addormentarsi, ma non ci riuscì. L’unica cosa che vedeva era quella del suo corpo, in un angolo della camera, morto e ricoperto di sangue e materia celebrale, sparsa sui muri e sul pavimento. Ed in quel momento si rese conto che stava osservando la scena da un punto impossibile, dall’alto della camera. Cercò di scoppiare a piangere, ma l’unica certezza che ebbe era quella di una libertà celestiale e divina. Finalmente, grazie all’orrore di nonna Leni, era stato liberato da tutte le paure. Si sentì finalmente libero, lontano dall’orrore che sapeva ogni giorno la nonna commetteva.

Silenziosamente pianse per lei, avendo visto per pochi attimi, dove lei, al termine dei suoi giorni terrestri sarebbe decaduta, verso l’orrore e lo stridore di lacrime e sangue, per l’eternità.
Questo racconto è frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi riferimento a fatti, persone, circostanze, passate e/o presenti, uomini o donne vivi o morti è puramente casuale.

Inizio

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