giovedì 5 febbraio 2009

Eulana Englaro: quando la morte è un diritto?


Ci sono argomenti che dividono l’opinione pubblica, argomenti che segnano profondamente la coscienza colettiva e individuale dei cittadini, dove trovare una posizione comune è impossibile. E il caso di Eluana Englaro, in stato vegetativo permanente da quasi un ventennio, è uno di questi, il cui dramma finale, forse sta giungendo al termine.

Eluana, piaccia o no, ha il diritto di morire, ha il diritto, nonostante quanti non direttamente coinvolti emotivamente in prima persona, si ostinano a voler combattere per una vita che non è più vita, ma semplice esistenza vegetale. Eppure lo Stato italiano, manovrato alle spalle dallo Stato Vaticano, continua a negare il diritto alla cessazione delle funzioni biochimiche della donna, nascondensi dietro un’etica costellata di dubbi, nascondendosi dietro ricerche mediche che dicono tutto ed il contrario di tutto, arrivando a scrivere una legge per il testamento biologico impraticabile, che non da alcun diritto nemmeno a coloro che in anticipo desiderano porre fine, se mai giungesse il momento, alle proprie sofferenze e a quelle dei propri cari.

Esiste, in senso relativo, il diritto alla vita, difeso dalla Costituzione Italiana, con tutte le sue varie eccezzioni, prima fra tutte l’aborto, inteso come libera scelta della donna, dove in modo consenziente decide di disfarsi di quanto concepito, ma innanzi a questo diritto – acquisito – non esiste il diritto di scegliere come e quando morire se colpiti da gravi malattie.

Non può essere uno Stato, un parlamento che decide arbitrariamente su come una persona debba non morire, imponendo una vita che non è più tale sotto l’aspetto personale, sociale e affettivo, imponendo alle famiglie di tenere in vita arificialmente il dolore, perchè un sondino di alimentazione non può essere tolto, perchè non si può staccare un respiratore artificiale che regola l’attività polmonare e di conseguenza la respirazione.

Morire, in determinate situazioni, è un diritto inalienabile, un diritto irrinunciabile di ogni essere umano che deve poter sceglire in anticipo le forme e i modi di quando interrompere – per sempre – le proprie funzioni vitali, dando l’ordine ai familiari d’eseguire indiscutibilmente le volontà; l’intromissione dello Stato all’interno della sfea individuale, punendo i medici che aiutano ad eseguire le volontà del paziente o dei famigliari, è una barbara forma di ritorsione che impedirebbe il compiersi dei desideri del paziente o dei cari.

Ora nel caso specifico di Eluana Englaro, molti affermano che la sua sarebbe una morte per fame e sete, usando questo pretesto per bloccare il protocollo che porterebbe allo spegnersi delle funzioni biologiche della donna, i cui tempi sono incerti, il quali potrebbero protrarsi anche per giorni. La soluzione ci sarebbe, eppure nessuno ha il coraggio di nominarla: Aiutarla alla cessazione delle attività biochimiche del corpo con farmaci adatti, ma questo aiuto è sistematicamente negato, in nome di un’etica di parte, che nega in modo sistematico il diritto di autodeterminazione dell’essere umano.

In Italia esistono tra le altre cose, due parole tabù: Eutanasia e suicidio assistito, condizionate da una visione catto-cristiana dell’uomo, reso prigioniero nelle maglie di una religiosità che non tiene conto delle diverse concezioni d’interpetazione dell’esistenza, a differenza di altri Paesi più evoluti, dove è possibile procedere, come ad esempio in Svizzera, al suicidio assistito, senza che i medici siano incriminati, ma senza essere costretti dalla legge ad applicare l’eutanasia o il suicidio assistito, pena il differimento all’ordine dei medici, ma dando assoluta libertà di coscienza e di scelta alla classe medica.

Non va dimenticato che in tempo di guerra, ogni medico istantamemente decide le sorti del paziente ferito, lasciandolo morire o aiutandolo a sopportare il dolore affinchè il trapasso non si riveli penoso o umamanemnte insopportabile, se può essere curato, prestando le attenzioni del caso. Ed è alla luce di tutto questo che il malato terminale, la persona sottoposta dalla malattia a dolori atroci ed insopportabili, che il paziente è letteralmente in guerra con la vita, e sa che questa è una battaglia perduta in partenza, dove solo attraverso la liberazione dalla vita, tramite una morte dignitosa e umana, potrà trovare la vera guarigione e pace nell’attimo stesso che esalerà l’ultimo respiro, per poi lasciarsi cadere, venendone divorato dalla distruzione – per sempre – del corpo.

Arroccarsi nel pretestuoso diritto alla vita, quando già da vivi essa è non vita, è una contraddizione ideologica che porta al rifiuti di vedere ed accettare la realtà stessa per quella che è, costingendo esseri umani – socialmente e umamanente morti – a continuare a vivere una vita che già da tempo non gli appartiene, condannandoli ad una barbarie disumana che non ha nulla a che vedere nè con la vita stessa, nè con la difesa ad oltranza di un principio ideologico-religioso anacronistico, completamente disarticolato dalle reali necessità liberatorie dei pazienti incurabili, che per in libera scelta desiderano abbracciare la morte come forma alternativa di vita.

Non va dimenticato tra le altre cose, purchè non diventi sistemico, che il diritto all’eutanasia e al suicidio assisito libererebbe una quantà di risorse economiche e di professionalità, che potrebbero essere impiegate profiquamente per il mantenimento di chi vuole essere tenuto in vita a tutti i costi, e rirsorse per la ricerca stessa, sempre insufficienti.

Continuare, come sta facendo per l’ennesima volta il governo Berlusconi, rendendo carta straccia delle sentenze dei giudici che a lui non piacciono, è un attacco senza quartiere al diritto di libera scelta, al diritto del cittadino di veder rispettate le proprie volontà. Il torbido spettacolo mediatico che la giustizia politica italiana sta fornendo al mondo civile, rasenta l’autolesionismo all’amatriciana.

Indipendentemente però da come andrà a finire, una domanda da tempo probabbilmente affiora nei pensieri degli italiani: Il padre di Eluana, Peppino Englaro, dove trova tutto il denaro per pagare avvocati, consulenti, medici che sostengono l’iniziativa fatta in nome e per conto di una donna che non ha lasciato volontà scritte? Chi paga per lui, chi lo sostiene economicamnete in questa battaglia anche politica, non solo culturale contro l’Italia e la maggioranza dei cittadini che non sono pronti ad accettare l’idea dell’eutanasia e del suicidio assistito.

Si dubita fortemente che Peppino possa aver fatto tutto di tasca propria, senza nessun contributo esterno di qualche associazione italiana o straniera interessata a rendere fruibile agli italiani la dolce morte.

Domande che nessun giornalista si è dato pena di porre agli interessati, eppure questo è un tema che dovrebbe mettere curiosità agli italiani, in quanto nessuno – a meno che non sia milionario in Euro – può sostenere per anni una battaglia del genere – fatta d perizie, controperizie, ricorsi sopra ricorsi e quant’altro la legge mette a disposizione non gratuitamente – senza avere adeguata copertura finanziaria alle spalle. E Peppino Englaro non ha mai chiarito questa sua posizione, che certamente non incide sul giusto diritto della privacy della figlia, ma che gli italiani hanno il diritto di conoscere e chese i media non si sono mai disturbati d’approfondireci sarà un perchè. Sasrebbe piacevole conoscere le risposte degli interessati.

Perchè la aGuardia di Finanza, sempre così solerte a contollare i piccoli commercianti, non controlla il signor Englaro, chiedendo i giustificativi, per conoscere sia i costi, sia coloro che l’anno sostenuto in tutti questi anni? Se quella di Peppino Englaro è una battaglia culturale giusta, lo deve essere anche a livello fiscale e di contributi eventualmente ricevuti e deve essere in grado di dimostrarlo in ogni sede, sia fiscale sia mediatica.

Marco Bazzato
05.02.2009
http://marco-bazzato.blogspot.com/

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