martedì 26 settembre 2006

Il diritto di cessare di vivere


Immaginiamoci d?essere a letto per anni. Le gambe immobili, le braccia insensibili, la voce assente, alimentati con sondino gastrico, e respirare con la ventilazione assista mentre attorno a noi tutto è vita, movimento, fuga verso il futuro, desiderio di conoscenza, d?esperienze sociali, d?amore, di sesso. Immaginiamo che tutto questo da progressivamente sparisca, si affievolisca, diventando un sogno irrealizzabile. Davanti sempre lo stesso paesaggio: una camera, una stanza d?ospedale, i suoni della vita che vive, e noi lentamente ci spegnamo come una candela che brucia in modo inesorabilmente lento. Noi siamo quella candela, siamo quella vita che cessa d?avere un senso.
Per un mese, un anno, una decina d?anni la volontà ci sostiene. Si guarda al nuovo giorno, alla speranza che la ricerca scientifica faccia dei passi avanti, che non sia ostacolata, con la speranza illusoria che sia diverso dal giorno passato. Poi la mente, il cuore, gli eventi stessi che si ripetono ci mettono innanzi all?ineluttabilità del vegetare. Eppure la mente è vigile, gli occhi vedono, le emozioni vivono, ma noi ci spegnamo. Ci avviamo a grandi passi verso l?ultimo balzo, verso quell?ignoto della morte che può colpire chiunque ad ogni istante. Siamo immobili e in attesa, da decenni.
Quel sottile filo che ci lega alla vita ad un certo punto si spezza, ma la vita continua, l?esistenza fatta di nulla procede, e dentro di noi s?accende l?ultima speranza, l?ultimo sogno, l?ultimo tabù da infrangere: la morte. Il cuore arrestato, il nulla, la fuga della vita dalla vita stessa. Vogliamo fuggire con lei verso l?oblio.
Ma non possiamo realizzare questo sogno, non possiamo dare l?ultima sterzata verso il nulla, perchè altri lo impediscono. Lo impedisce la legge, lo impedisce la coscienza sociale, lo impedisce la paura tutti hanno dell?ultimo viaggio.
Noi vogliamo quell?ultimo viaggio, vogliamo quel balzo verso quell?unica libertà che vorremmo conquistare. Ma siamo immobili.
Alcuni dicono che la vita non ci appartiene, che ci è stata donata, è vero. Forse però la morale cattolica, etica e sociale impedisce di veder oltre quell?illusorio condizionamento, ma noi gli siamo immobili. Assenti ma presenti. Un dead man walking: uomo morto che cammina. Ma non possiamo camminare, non possiamo essere nulla, eppure siamo tutto e bramiamo il nulla.
Alcuni affermano che non si può parlare di questi temi vedendoli sotto il punto di vista emozionale, o con l?occhio distorto dell?attimo. È facile predicare e giudicare quando si vive la vita, è facile essere portatori di una buona novella quando il mondo gira attorno a te, e tu giri attorno al mondo. È facile giudicare il bisogno della ricerca del nulla, della morte. Ma essa ti passa a fianco ogni giorno, ad ogni battito di cuore, ad ogni rumore. Ma non ti vede. È cieca, assente, infingarda è bastarda.
É facile predicare a distanza di sicurezza. Sicuro non costa nulla. Andiamo a dirlo di persona, andiamo a visitarlo, prendiamoli la mano, stringiamola, osserviamo i suoi occhi che invocano la fine, e abbiamo il coraggio di sentirsi al suo posto. Noi essere lui. Per giorni, per mesi, per anni...e alla fine?
Certo ci sono i combattenti, ci sono coloro che non si sanno arrendere, che non si vogliono arrendere, e che quella candela, nonostante le sferzate di vento di vita immobile ma viva, non si spegne. Ma loro non rappresentano tutti, e hanno il diritto alla vita, hanno il diritto all?assistenza fino all?esalazione dell?ultimo respiro, ma gli altri?
Gli altri sono dimenticati, sono abbandonati a se stessi, sono i signor nessuno pericolosi perchè alternano il presunto delicato equilibrio sociale, le presunte certezze acquisite.
C?è un brano dei Metallica: One che nela strofa finale recita:
Il buio M?imprigiona
Tutto ciò che riesco a vedere
È solo orrore
Non posso vivere
Non posso morire
Sono imprigionato in me stesso
E? il mio corpo la mia stessa cellula che m?imprigiona
La mina
Mi ha rubato la vista
Mi ha rubato la voce Mi ha rubato l?udito
Mi ha rubato le braccia
Mi ha rubato le gambe
Mi ha rubato l?anima
Ora la vita che mi resta è un inferno (1)

Per molti è una semplice canzone, un testo inventato, un testo ispirato anche da un vecchio film in bianco e nero, ma per molti quell?inferno terrestre, quella Genna è qui, ora!
Desiderano il loro paradiso, il loro nirvana, il loro nulla, ma non possono raggiungerlo.
Si potrebbe obiettare che questo sia un inno alla morte, che sia una negazione alla vita, mentre è solo un bisogno d?una nuova esistenza, libera dai legacci carnali di una carne che vegeta, libera dal sentirsi prigionieri di un corpo che lentamente decade verso il nulla, ma l?inesorabile processo è troppo lento e struggente, che l?inesorabile alchimia verso il ritorno alla terra, è un attesa struggente che non uccide.
Viviamo in una società dove l?ipocrisia da caro estitno sofferente abbonda troppe volte in quantità industriale: Ha finalmente finito di soffrire...Ora riposa in un luogo migliore...Lì starà meglio di qui...Ha trovato la pace.... Quante belle parole forse giuste, forse sbagliate, a volte impropriamente usate per lavare la coscienza, usate non per dare un senso alla morte altrui, ma per trovare una giustificazione alla paura della morte stessa, all?orrore del senso di distacco e di repulsa che ancora l?ultimo scoglio della vita stessa.
Essere ipocriti è solo un altra forma di falsità. L?uomo non ha paura della morte, l?uomo non ha terrore dell?ultimo viaggio. L?uomo ha paura del dolore, ha paura del senso d?impotenza che la malattia genera nella la psiche. Ha paura del senso di dipendenza, dell?idea d?essere un peso per se stessi e per gli altri.
Nell?attimo dell?ultimo viaggio l?uomo è pronto. La pace lo prende, lo sovrasta, lo avvolge e vive l?istante con la certezza che tutto è compiuto, e che nulla riguardante il passato avrà più peso nel nuovo futuro oblio del nulla.
Il dibattito deve essere aperto, franco, onesto, ma i nostri rappresentati devono toccare con mano la realtà di chi vuole vedere riconosciuto il diritto di cessar di vivere, altrimenti sarebbe troppo facile teorizzare sul dolore e la sofferenza altrui senza prima averla sfiorata sulla propria pelle, oppure devono aprire un dibattito serio sulla ricerca, senza pregiudizi ideologici, teologici o dogmatici. Dove veramente l?etica della vita sia a favore della vita stessa.
Ma è più facile nascondere la testa sotto la sabbia e pontificare, anzichè aprire gli occhi, capire e poi legiferare.


Marco Bazzato
26.09.2006
http://marco-bazzato.blogspot.com/

Vedi link:
(1) http://lnx.tuttotesti.com/forum/traduzione-one-dei-metallica-vt2581.html

Per maggiorni informazioni:
http://www.lucacoscioni.it/

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