Lo debbo dire in tutta onestà, ho sofferto, perché a me, come a molti altri compagni di classe, non solo degli anni scolastici in cui ho frequentato le medie, Compagno era una specie di leggenda. Non si può descriverlo in altro modo.
Ricordo, anche se sono passati ormai più di trent’anni, come veniva descritto da chi aveva avuto l’onore di averlo come insegnante: un essere quasi mitologico che incuteva timore e rispetto, visto che al tempo quando la scuola era vera fonte di rispetto nei confronti dei docenti. E in fatti le aspettative/paure non andarono deluse. Ma il Prof. Compagno era l’apoteosi del docente non docente. Era burbero? Sì, ma di un burbero straordinariamente umano che con un semplice sguardo sapeva zittire la classe. Con lui anche le mosche smettevano di ronzare, forse anche per via delle quattro Pack al Mentolo che si fumava, con le finestre regolarmente chiuse, in un’ora scolastica. Quattro, rigorosamente quattro. Alla cadenza di una ogni 12 minuti, spente nel suo portacenere personale a forma di conchiglia, che si portava sempre appresso e che poi posava, al termine delle lezioni, sul tavolo del bidello, in corridoio.
Credo che lo si possa definire una specie di John Keating, l’insegnate di lettere, de “L’attimo Fuggente”, USA – 1989 [1], reale, anche se va detto che forse l’accostamento non gli sarebbe piaciuto nemmeno un po’, in quanto amava classificare i laureati in lettere come “laureati in ciacoe”, ossia laureati in chiacchere. In quanto era una specie di Sheldon Lee Copper[2], il protagonista di The Big Bang Theory[3], in versione Beta Tester. Eppure il Professor Compagno andava oltre la matematica, la scienza, la fisica, perché come il migliore dei filosofi, sapeva dare in un modo totalmente unico e anticonformista l’esempio. Sì, perché non sapeva solo insegnare le sue materie in modo professionale, ma sapeva insegnare in modo umano, avendo come dono quell’umanità quasi paterna, fatta di rimproveri, anche di epiteti coloriti, mai pronunciati con cattiveria, ma con bonaria ruvidezza.
Proverbiale era il modo di interrogarti: dava una scorta al registro di classe e… « Chi interoghemo uncò?», scorrendo la pagina con i nomi degli studenti con sguardo sornione, come quello di un gatto che cerca la preda e noi tutti ci facevamo piccoli,pregando dentro “Fa che non tocchi a me! Fa che non tocchi a me…” . «Basato aea lavagna…». Sì, perché alternava l’italiano al dialetto. E infatti sovente le domande dell’interrogazione erano rivolte in dialetto, anche se poi balbettando gli studenti rispondevano anch’essi in modo alternato. Alla fine arrivava il voto e quando questo era sotto la sufficienza, alzava la mano e mostrava le quattro dita..e la frittata era fatta!
Lo ammetto senza vergogna, anche con una punta di vanto d’essermi beccato più di qualche volta un “semo” o “mona”,o “te si un musso!” perché in alcuni momenti i concetti per lui semplici e per me ostici, non ne volevano sapere di entrare in testa.
Su di lui sono circolate per anni miti e leggende sulle sue manie. Una tra tutte era certamente quella di volere i banchi disposti a file anziché a ferro di cavallo. Cosa che generava sempre un putiferio bestiale di movimenti, rumori, frastuoni, zaini, cartelle, libri, quaderni e banchi caduti, quando squillava la campanella al termine dell’ora di lettere e iniziava quella di matematica.
Ma era il suo look, oggi si direbbe così, che era particolare, un misto tra un Professore uscito da Oxford, con il suo Parka verde, quasi da pescatore, le sue giacche di lana o di velluto marroni con le toppe sulle maniche, i suoi maglioni, quasi sempre con il collo alto e i pantaloni di lana in inverno o di cotone in primavera, sovente con abbinamenti di colori che dire impropri sarebbe un eufemismo e le sue scarpe, di solito a suola molto grossa, o tronchetti con la zip di lato marroni, come quelli che ancora oggi porta Adriano Celentano. Una volta solo, a mia memoria, si è presentato a scuola “tirato a lustro”, ossia, camicia, giacca e cravatta e la classe è scoppiata in un “Oh!” di stupore e meraviglia, messo subito tacere dal suo tipico gesto con il braccio alzato a mezz’aria e la mano che faceva cenno di silenzio.
Il Professor Compagno era fatto così, o lo si accettava in toto, in blocco, oppure lo si rifiutava. Ma non poteva essere rifiutato perché sapeva farsi amare, anche grazie alla sua rudezza, grazie alla sua voce che non si alzava mai oltre il necessario, anzi. Sovente era l’esatto opposto. Sapeva riprenderti a bassa voce, con uno sguardo di sbieco attraverso gli occhiali da lettura a mezzaluna, che quando non li usava o a volte erano dentro un astuccio verde _ messa sulla cattedra, vicino al portapenne nero – o con la classica cordicella. Riusciva a sentire chi disturbava in classe, anche se parlava sottovoce, ma senza voltarsi indicava il “colpevole”, che immediatamente si zittiva.
Sono moltissimi i ricordi che ho di lui. Da una parte vorrei narrarli, ma dall’altra preferisco serbarli nel cuore e nella mente, come un dono che ogni suo studente ha ricevuto da lui.
Ma a proposito di alcuni aneddoti o ricordi, non posso non menzionare la sua mitica Ford Escort grigia o i suo improbabili motorini auto costruiti, di cui era addirittura riuscito ad ottenerne la targa, quindi l’omologazione. Sì, perché essere fuori dalle regole non significava per lui negarle e fingere che non esistessero, ma significava rispettale, non prima d’averne dato una chiave di lettura diversa e più articolata, non dogmatica e conformistica.
Il Professor Compagno era anarchico. Lo si potrebbe definire un contadino, con le scarpe grosse, nel senso più nobile del termine – inzaccherate di merda, come usavano fare i nostri nonni quando uscivano dalla stalla,dopo “aver governato le bestie” e il cervello fino. Sì, perché il Professor Compagno aveva un imperativo: l’assenza di certezze. E insegnava ai suoi studenti a ragionare con la propria testa, a mettere in discussione tutto e tutti, anche l’autorità costituita, se si sente d’essere nel giusto o se ci si sente attaccati ingiustamente. E riferito a ciò non posso non citare una parte del discorso di Steve Jobs, il fondatore della Apple – a mio avviso calza a pennello e credo che il Prof. Compagno approverebbe – che fece alla Stanford University nel 2007:[4]
“Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario”.
Il professor Compagno era un concentrato di contraddizioni, ma sono quelle che noi consideriamo o che consideriamo degli altri come contraddizioni che contraddistinguono la persona ordinaria da quella straordinaria. Infatti le contraddizioni contraddistinguono il soggetto massificato e schiavo delle opinioni altrui, viziato dal pensiero comune dominante, dal fine pensatore che non da importanza all’apparenza, ma che scava, scava nella sostanza delle cose e delle persone e delle cose fino a quando non trova la quadratura del cerchio.
Per terminare vorrei fare le condoglianze alle due figlie e alla moglie, perché io ho perso un ex professore ma loro hanno perso un padre e un marito e a loro va tutta la mia vicinanza, anche se nella distanza.
Grazie per avermi permesso di condividere un piccolissimo, ma importantissimo tragitto della mia esistenza. Per me oggi come allora significa moltissimo.
Lorenzo, permettetemi che termini così, rimarrai nei miei ricordi.
Marco Bazzato
25.03.2015
Foto presa da un commentatore della pagina di Facebook “Se sei di Vigonvo”
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