venerdì 22 febbraio 2019
È morta la mia maestra delle elementari, Lidia Giantin Pietrogrande
Ho appreso giusto
poche ore fa della morte della mia maestra delle elementari, Lidia
Giantin Pietrogrande.
Per tutti noi,
almeno per i miei compagni della scuola elementare Leonardo da Vinci di Vigonovo,
sezione B, era semplicemente la “Signora maestra” o al massimo “Signora
Pietrogrande” – così si usava negli anni ’70 della fine del millennio scorso.
È quasi passato
mezzo secolo e i ricordi di quegli anni, come un geyser, emergono alla mente e
con essi il primo giorno della seconda elementare, quando ci fu cambiata sia
aula, sia insegnante.
Si entrava dall’ingresso
della scuola, si prendeva la rampa di scale alla sinistra, si salivano due
rampe e poi a sinistra ci si immergeva in un lungo corridoio con tre aule, la nostra, eravamo in ventiquattro, era la
prima: soffitto alto, pareti grigie fino ad un metro e mezzo e poi il resto bianco immacolato, tre
ampie finestre che davano sul cortile, da cui si intravvedevano due vecchi
platani.
I nomi li ricordo ancora tutti, ognuno banco
per banco. Eravamo disposti in quattro file composte da tre banchi, in ognuno
ci si stava in due, scomodissimi, con ancora i buchi per i calamai. Al mio
fianco R.E – citerò per motivi di privacy solo le iniziali. Dietro P.T e C.L.
Io e la mia compagna di banco ci trovavamo nella fila centrale, quasi innanzi
alla cattedra.
In quel primo
giorno entra in classe questa donna, ai miei occhi bambino sembrava altissima,
portava un lungo camicie nero . Si presentò dicendo: «Io sono la vostra nuova
mastra, il mio nome è Lidia Pietrogrande e fece un ampio sorriso. Dovrete
chiamami “Signora maestra”, poi prese il registro e fece l’appello.
Il primo insegnamento che ci diede fu che
dovevamo alzarci sempre dai nostri banchi, fare un passo di lato, quando
entrava un adulto, mettere le mani dietro la schiena, salutare e attendere un
cenno della mano, o un «Seduti.» prima di tornare nuovamente ai nostri posti e
sederci. All’inizio e al termine della lezione, quando entrava e quando usciva,
in coro: «Buon giorno, signora maestra.» e cosa più importante, noi maschietti
dovevamo cedere il passo alle bambine,in segno di rispetto nei loro confronti.
Così si insegnava in quegli anni.
Le lezioni iniziavano
con il segno della croce,una preghiera. La maestra ci faceva chiudere i libri
cinque minuti prima del termine del suono della campanella, sempre con il segno
della croce e una preghiera, poi, in fila indiana, con lei davanti, ci scortava
verso l’uscita e ci guardava uscire dal dall’edificio e scendere i quattro
gradini. Fatto ciò, con i testi scolastici al tenuti all’altezza del seno con una
mano, con l’altra teneva la sua borsa, si incamminava verso casa. Abitava in
una casa con un minuscolo giardino, un cancello bianco e all’interno, quando ci
andai per la prima volta, ebbi la sensazione di entrare in salotto che in
seguito avrei associato ai salotti inglesi della fine ottocento.
La “Signora
maestra”, voglio nominarla così anche oggi, perché così ho continuato a
nominarla in seguito, anche dopo più di trent’anni, era una donna d’altri
tempi, un’insegnante di vecchio stampo, proveniente da un’epoca che oggi
appartiene ai ricordi di quasi mezzo secolo fa.
Era una strana “madre”:
austera, severa ma tremendamente innamorata del suo lavoro. A modo suo credo
che abbia sentito sempre come figli suoi tutti gli allievi che ha avuto nel
corso dei suoi anni di insegnamento. Sapeva insegnare, spiegare con semplicità
e rigore, anche le materie che allora erano complesse per le nostri piccole
teste in perenne agitazione e formazione.
Tra i tanti ricordi che emergono in questo
momento, due sono predominanti. Il primo riguarda una lezione sulle nuvole, su
come riconoscere a prima vista le nubi temporalesche, il colore che queste
avevano prima dell’arrivo di un temporale – da queste parti i temporali che
giungono dal Garda sovente ancor oggi causano danni – e le differenti colorazioni
legate al fatto che potessero portare grandine. Ci disse che si poteva capirlo
sia conoscendo da che parte giungeva il vento, sia dal leggero grigiore della
medesime, indice di una differente temperatura al suo interno.
L’altro invece è
legato a due poesie: “La spigolatrice di Sapri” di Luigi Mercantini e “I
Pastori – Settembre” di Gabriele D’Annunzio. In entrambi i casi dovevo
impararle a memoria per il giorno seguente, ma casa non le studiai, troppo
impegnato a guardare i cartoni animati giapponesi. Fui però fortunato in quanto,
prima di giungere a me, aveva fatto il giro con gli altri compagni, così quando
venne il mio turno, riuscii a recitarle fino alla fine.
Era una donna moderna per la sua epoca, ma di
una modernità possiamo dire quasi aristocratica, austera. Una delle poche
concessioni che lasciava intravvedere sotto il nero grembiule, in pieno
inverno, erano i classici maglioni di lana che andavano di moda in quegli anni.
Sui lobi delle orecchie portava sempre un paio di orecchini, non vistosi, ma
anch’essi esprimevano un lato della sua personalità. Solo una volta ricordo d’averla
vista con i pantaloni lunghi, perché la sera precedente c’era stata una
furibonda nevicata e si presentò in classe – tutti ne rimanemmo stupiti –
indossando un paio di pantaloni scozzesi e scarponcini da montagna. Quella fu l’unica
concessione che fece in quattro anni, altrimenti indossava sempre lunghe gonne
di colori scuri o tinta pastello.
Era debole di gola. In quei quattro anni non
deve aver fatto più di una settimana di assenze. Spesso, infatti, arrivava a
lezione con qualche linea di febbre. Ciò non la scoraggiava e nonostante avesse
gi occhi lucidi, riusciva, credo anche grazie al suo carisma, a far danzare l’intera
classe a suo comando, dome un navigato direttore d’orchestra.
Aveva le dita
magre e affusolate, con la parte interna del pollice e il polpastrello dell’indice
perennemente imbiancato, così come parte della manica e del gomito del braccio
destro, dalla polvere di gesso che le rimaneva tra le dita. Aveva una bella
calligrafia, non solamente quando doveva scrivere sulla lavagna per noi
bambini, ma anche da “civile”, fuori dal ruolo di mastra, probabilmente perché sentiva
di essere “maestra” in ogni momento.
A mio avviso non
era una donna facile alla confidenza, però era una donna che sapeva far aprire le
persone, sapeva ascoltare, imponendosi con una dolcezza ruvida, ma mai cattiva,
una ruvidezza apparente, perché forse così è che per quattro anni la videro i
miei occhi e presumo anche gli occhi degli altri miei compagni della sezione B
di quegli anni.
Era una “Signora
maestra “ che badava al sodo. Come sapeva premiare, sapeva anche punire. Perché
in quegli anni il concetto di punizione della maestra era visto dalle famiglie
come un’estensione delle punizioni genitoriali, soprattutto se non ci si
comportava bene o se non si faceva il proprio dovere, come i genitori si
attendevano da noi, senza proteggerci, a differenza di ciò che troppo spesso
accade oggi, dove i figli sono innocenti a prescindere.
Un’ultima nota
prima di terminare queste righe in sua memoria: a casa conservo ancora il
piccolo Vangelo, con la copertina rossa, che regalò a tutta la classe, al
termine della nostra Quinta B.
Grazie, signora
maestra, ora sei con il tuo Giuseppe.
Marco Bazzato
22.02.2019
Etichette:
coccordilli,
Fatti e persone,
Scuola
Iscriviti a:
Post (Atom)